venerdì 16 febbraio 2024
Benjamin Netanyahu dice no. Il premier israeliano, scrivendo su X dopo aver parlato col presidente degli Stati Uniti Joe Biden e partecipato alla riunione di gabinetto, afferma che “Israele respinge apertamente i diktat internazionali riguardanti una soluzione permanente con i palestinesi. Tale accordo sarà raggiunto solo attraverso trattative dirette tra le parti, senza precondizioni”. Netanyahu sostiene che “Israele continuerà a opporsi al riconoscimento unilaterale di uno Stato palestinese. Tale riconoscimento, sulla scia del massacro del 7 ottobre, darebbe un’enorme ricompensa al terrorismo senza precedenti e impedirebbe qualsiasi futuro accordo di pace”. Il colloquio tra Biden e Netanyahu ha fatto seguito a un incontro avvenuto all’inizio della giornata in Israele tra il direttore della Cia William Burns e il premier israeliano. Biden ha messo in guardia Netanyahu contro il lancio da parte di Israele di un’operazione sulla città di Rafah, nella Striscia di Gaza, senza un piano per la sicurezza dei civili. Tuttavia, dopo oltre quattro mesi di conflitto a Gaza gli Stati Uniti e i partner arabi stanno accelerando i propri sforzi per realizzare un piano di pace a lungo termine in Medio Oriente. Lo rivela il Washington Post, riferendo che si lavora anche a una tempistica precisa proprio per la creazione di uno Stato palestinese. Il primo passo, un cessate il fuoco tra Israele e Hamas di sei settimane, durante le quali Washington annuncerebbe il progetto e la formazione di un Governo palestinese ad interim. Una strategia ambiziosa che però rischia di infrangersi sul muro di Benjamin Netanyahu.
Il piano di pace, secondo il Washington Post, è legato ai negoziati per una tregua finalizzata al rilascio di altri ostaggi, che l’amministrazione Biden considera ancora “possibile”. L’obiettivo è ottenere un’intesa prima dell’inizio del Ramadan, il 10 marzo, per evitare che il mese di digiuno peggiori ulteriormente le condizioni della popolazione di Gaza. A quel punto ci sarebbe il tempo di annunciare la road map: il ritiro delle comunità di coloni (molte, se non tutte) dalla Cisgiordania, una capitale palestinese a Gerusalemme Est, la ricostruzione di Gaza, accordi di sicurezza e governance per i Territori nella loro ritrovata unità. Per Israele, come contropartita, garanzie specifiche di sicurezza e una normalizzazione nei rapporti con Riad e altri Stati arabi. A questo schema lavorano gli Stati Uniti con Egitto, Giordania, Qatar, Arabia Saudita, Emirati e rappresentanti palestinesi. Tra le opzioni valutate da Washington c’è anche il riconoscimento anticipato di uno Stato palestinese. Mentre dai Paesi arabi filtra ottimismo sulla possibilità di riunire i gruppi palestinesi per istituire un Governo di tecnocrati, piuttosto che di politici, che porti a nuove elezioni. E si discute anche se la leadership politica di Hamas possa avere un ruolo nella Gaza del dopoguerra. L’incognita principale in questo complicato processo resta Israele, che il Post ha definito “l’elefante nella stanza”. Perché il premier Netanyahu considera irricevibili le richieste di Hamas sugli ostaggi e soprattutto si oppone alla nascita di uno Stato palestinese. L’Anp, tra l’altro, non viene considerato un interlocutore serio perché “deve ancora condannare il massacro del 7 ottobre”, ha spiegato il portavoce del premier.
Proprio Abu Mazen, parlando del piano arabo e americano, ha detto di aspettarsi “l’azione sul campo e non le parole” ed ha ribadito che l’Anp è pronta ad assumersi le proprie responsabilità a Gaza dopo la fine del conflitto. Eppure, secondo alcuni funzionari e analisti occidentali, sono proprio i due leader ad ostacolare una pace duratura. Sia Netanyahu che Abu Mazen “sono più interessati a mantenere i loro posti” che ad impegnarsi per “qualsiasi soluzione che trasformi” l’attuale quadro politico, è il parere espresso da Aaron David Miller, ex consigliere del Dipartimento di Stato Usa e coordinatore dei negoziati arabo-israeliani. Frattanto, l’ambasciata di Israele presso la Santa Sede fa dietrofront. Dopo un lungo comunicato stampa in cui definiva “deplorevoli” le dichiarazioni del segretario di Stato vaticano, cardinale Pietro Parolin, sull’ingiustificabile alto numero di vittime civili a Gaza, con una nuova nota la sede diplomatica israeliana corregge il tiro e “precisa” che la parola più adatta sarebbe stata non frasi “deplorevoli” ma “sfortunate”, se non fosse scivolata nella traduzione.
“Il comunicato originale era in lingua inglese e successivamente è stato tradotto in italiano”, spiega infatti l’ambasciata. In inglese il comunicato, in riferimento alle parole di Sua Eminenza il Cardinale Parolin, così recitava: “It is a regrettable declaration”. Nella traduzione in italiano è stata scelta la parola “deplorevole” che poteva anche essere tradotta in modo più preciso con sfortunata”. Parola che nel gergo diplomatico ha un’accezione meno sprezzante. Tra le mosse che appaiono distensive con il Vaticano anche una lettera di un gruppo di rabbini e studiosi del dialogo ebraico-cristiano al Papa, di cui dà conto l’Osservatore Romano. “Ci conforta il fatto che Ella abbia teso la mano agli ebrei di tutto il mondo, e in particolare a quelli di Israele, in questo momento di grande sofferenza”, scrivono i rabbini, sottolineando “anche il suo impegno nell’opporsi attivamente all’antisemitismo e all’antigiudaismo, che negli ultimi tempi hanno assunto dimensioni sconosciute alla maggior parte di noi durante la nostra vita”. Del resto, l’inusuale attacco di Israele nei confronti del Vaticano aveva stupito la maggior parte degli osservatori.
Sollecitato in un’intervista a commentare l’accaduto, anche il ministro degli Esteri Antonio Tajani aveva infatti attribuito la durezza delle parole dell’ambasciata contro Parolin al “momento di grande tensione provocato dalla guerra”. Lo stesso vicepremier aveva nei giorni scorsi sollevato la questione della “proporzionalità” tra il diritto di Israele a difendersi e a rispondere all’attacco del 7 ottobre e il dovere di evitare al massimo di causare vittime tra la popolazione civile palestinese “che non ha nulla a che fare con Hamas”. “Comprendiamo bene le ragioni di Israele – ha ribadito Tajani – ma dobbiamo lavorare tutti perché si arrivi alla pace e perché ci sia una tregua in questo momento che permetta di aiutare la popolazione civile”.
Frattanto, l’Egitto, temendo che un’ulteriore spinta militare israeliana verso il sud di Gaza possa scatenare un’ondata di profughi, sta costruendo un muro di 8 miglia quadrate nel deserto del Sinai vicino al confine. Lo hanno riferito funzionari egiziani e analisti della sicurezza al Wall Street Journal. Per settimane, l’Egitto ha cercato di rafforzare la sicurezza lungo la frontiera per tenere fuori i palestinesi, dispiegando soldati e veicoli blindati e rafforzando le recinzioni. Il nuovo complesso fa parte dei piani di emergenza nel caso in cui un gran numero di rifugiati di Gaza riesca a entrare. I media arabi hanno riferito per la prima volta della costruzione del muro a dicembre, anche se il Wall Street Journal e il New York Times hanno ora confermato lo sviluppo di una barriera lungo il confine tra Egitto e Gaza. L’Egitto ha precedentemente dichiarato la sua opposizione a qualsiasi offensiva israeliana nel sud della Striscia di Gaza che potrebbe destabilizzare il suo confine con la Striscia. Il ministero degli Esteri egiziano ha parlato domenica delle “gravi conseguenze” di un’operazione militare israeliana a Rafah e ha invitato Israele ad astenersi dal “prendere misure che complicherebbero ulteriormente la situazione e danneggerebbero gli interessi di tutti i soggetti coinvolti, senza eccezioni”.
di Redazione