Abu Mida

lunedì 8 gennaio 2024


Al terzo passaggio di Adeste fideles, sottofondo nell’immensa hall del cinque stelle in territorio emiratino, una famiglia italiana sbuffa e abbandona questo luogo più natalizio di una città bavarese. Ad Abu Dhabi con appena un miliardo hanno costruito un Louvre, mentre un Guggenheim aprirà nel 2025. Di fronte c’è l’Iran, a un soffio il Qatar, quello che nega, nega, nega di finanziare Hamas. Nel frattempo, qui la libertà di religione è diventata un business che non esclude nessuno, perché al cielo si arriva anche impilando cataste di banconote e grattacieli di cristallo. Persino costruendo una sinagoga, che sarà inaugurata a breve.

La magia iniziò nel 1962 con la prima esportazione di petrolio trovato nel 1958. L’emiro Zayed bin Sultan Al Nahyan capì istantaneamente che gli affari si dovevano fare a ritmi serratissimi, e con l’Occidente. Gli Stati Uniti e molti altri Paesi furono ben felici di trovare un nuovo amico prezioso in un punto molto strategico. Mente velocissima e intelligenza creativa, Zayed rispettò la tradizione che vuole al potere famiglie numerose, generando ventisei figli con sei donne. Ma comprese che, per entrare in orbita, il suo Paese, poi federato con gli altri Emirati fra cui Dubai, aveva bisogno di tutto, di infiniti operai e di architetti all’avanguardia, e poi di tecnici, ingegneri, agronomi, artisti, scienziati strapagati per essere oltre il futuro che tutti immaginano. Il suo motto era non aspettare, mai. Perché ogni attesa è uno spreco di realizzazioni.

E mentre in Norvegia auto e bus elettrici si fermano per il gelo, a riprova che il gretismo non supportato scientificamente è solo eco-demagogia, gli Emirati hanno il petrolio (quello con cui si produce gran parte dell’elettricità delle batterie ko) e usano il passato per costruire il futuro. La classe dirigente è araba, ma la lingua di gran lunga prevalente è l’inglese, in quanto gli emiratini sono appena il venti per cento della popolazione che dominano. I controlli più rigorosi sono fatti all’interno dei Ministeri, dove squadre di ispettori si aggirano in incognito, rilevando le inefficienze. Ogni tanto persino l’attuale emiro Mohammed bin Zayed Al Nahyan piomba negli alti uffici, cacciando i dirigenti che non arrivano al lavoro in orario.

Le distanze sociali sono molto marcate, senza però che questo costituisca un motivo di rivendicazioni: in questa macchina potentissima ognuno ha bisogno del lavoro degli altri, in un mosaico che punta sulla perfezione assoluta. Bassissima criminalità, grande educazione, senso del dovere, tolleranza: tutti gli ingranaggi di un sistema progettato per polverizzare ogni record, rivoluzionando i metodi della vecchissima Europa e degli Stati Uniti. Un concetto estremo di modernità in cui lo straniero è disorientato, mentre passeggia fra griffe e donne in burka, robot e ragazze che si infilano in ascensori di cristallo pieni di coetanee in short e minigonne, affrettandosi ad abbassare il niqab sul viso. E poi negozi occidentali accanto ad altri di abiti femminili, che ricordano la famosa frase con cui Henry Ford offriva l’economico modello T lasciando ai clienti la preferenza del colore, purché scegliessero il nero.

Abu Dhabi è la capitale dell’omonimo Emirato, e anche dell’Unione. È lo Stato più grande e finora ha puntato su economia, geopolitica e un ruolo di prestigio in una regione piuttosto complicata. Ma il turismo è ancora marginale: se nella minuscola Dubai ci sono più di cinquecento alberghi, qui gli hotel non arrivano a ottanta. Ma qualcosa si sta muovendo anche in questo campo, seppure – in attesa di nuove attrazioni – le povere guide si debbano arrampicare sugli specchi per rivendere la Grande Moschea di Zayed bin Sultan, padre della patria, come sublime opera d’arte. Lavori iniziati nel 1996 e terminati nel 2007 dall’italiana Impregilo.

I turisti che partono dallo Stivale e che amano ammiccare con termini inglesi infilati a capocchia nel loro sbrodolario cercano una rarissima guida italiana, perché l’inglese non lo parlano. Così, pianisti di piano-bar, istruttori di tavola a vela, adoratori di sushi internazionale leggiucchiano qualcosa e si esibiscono come tour leader, trasformandosi in veri e propri vucumprà che magnificano oltre ogni limite i luoghi che illustrano. Sottolineano i marmi italiani impiegati in quantità infinite, segnalano materiali preziosi da mezzo mondo, insistono fino allo sfinimento sugli intarsi, su decine di capitelli dorati che sembrano di plastica. E sottolineano i duecentomila nodi per il tappeto che ricopre la moschea (in realtà più di due miliardi). Raccomandano alle donne di osservare il dress code, mentre agli uomini è concesso quasi tutto, eccetto fare con le mani gesti raffigurati in un cartello: niente pugno chiuso o saluti fascisti, niente v di vittoria e altre configurazioni digitali.

Per non limitarsi alla moschea, le guide dirigono il pullmino verso il Louvre, ma non hanno idea del tempo che occorra per visitarlo e propongono di entrarci nello spazio di un tramezzino. Non importa, si raccatta quello che c’è. Per i giorni seguenti il ragazzo consiglia palazzoni presidenziali e l’Emirates Palace, hotel colossale, visitabile come fosse un museo dal pubblico che lo twitterà ammiccando alla culla della propria vacanza. A tutto questo, si stanno aggiungendo record mondiali come l’immenso parco acquatico, le montagne russe Ferrari da duecentoventi orari, i divi animati della Warner Bros. Attrazioni numericamente non comparabili con quelle dell’Emirato più famoso, ma le guide esaltano ciò che hanno e invitano ad ammirare le cose più disparate con gli stessi criteri: nave spaziale e moschea, gelati robotici e dipinti di Leonardo.

E mentre i ricconi si difendono dai dozzinali Jingle Bells con soffusi Tannenbaum jazzati nei piani vip, frequenti affaristi meditano nuove società nella confinante Arabia Saudita, che sta aprendo al turismo, e non per bisogno di riempire camere con idromassaggi: è chiaro che l’esempio di questi Staterelli pestiferi sta contagiando anche la terra della pietra nera. Che dovrà centellinare le concessioni in tema di costumi, compatibilmente con il business, apprezzato da qualsiasi dio a cui stia a cuore il benessere dei fedeli.


di Gian Stefano Spoto