mercoledì 8 novembre 2023
Un mese fa, circa tremila miliziani di Hamas entravano nel sud di Israele e perpetravano il maggiore eccidio di ebrei dalla Seconda guerra mondiale ad oggi. A seguito di questo episodio, la cui violenza, per efferatezza e barbarie ha potuto superare quello che fecero i nazisti, Israele è entrato in guerra. È una guerra ancora in corso e lo sarà fino a quando Israele potrà affermare che il nemico è stato messo nella condizione di non nuocere più.
Questa guerra è stata scatenata da una formazione islamica integralista imbevuta di antisemitismo, come testimonia inequivocabilmente il proprio manifesto programmatico, lo Statuto del 1988, mai abrogato da Hamas ma integrato, nel 2017, da una versione più orecchiabile agli occidentali. Si è provveduto cioè, a sostituire “ebrei” con “sionisti”, e “jihad” con “resistenza”, ma i fatti del 7 ottobre scorso, le testimonianze, ci dicono che la selvaggia ebbrezza di sangue e distruzione che ha animato i carnefici di Hamas fosse profondamente impregnata di odio per gli ebrei.
L’antisemitismo in Medio Oriente è sempre stato mantenuto vivo dalla metà degli anni Trenta ad oggi, quando la propaganda nazista iniziò a diffondersi e a trovare terreno fertile. Due figure chiave contribuirono al suo diffondersi, Amin al-Husseini il Mufti di Gerusalemme e Hasan al-Banna, il fondatore della Fratellanza Musulmana, la cui organizzazione si diede da fare per tradurre in arabo il Mein Kampf, e I Protocolli dei Savi Anziani di Sion. Fu soprattutto il Mufti, il più accanito assertore della necessità di una politica radicalmente eliminazionista nei confronti degli ebrei. Dall’eliminazione degli ebrei all’eliminazione di Israele il passo è conseguente.
Prima di Hamas questo obiettivo era quello che si era dato l’Olp e insieme ad esso le sigle satelliti del terrorismo arabo che gli gravitavano intorno. Arafat non fece mai mistero della necessità che “l’entità sionista” venisse annientata, non a caso era stato riconosciuto proprio da Amin al-Husseini come il suo degno erede. Il progetto di distruggere Israele e di farla finita con gli ebrei in Medio Oriente è stato sempre il progetto fondante delle organizzazioni terroristiche che si sono prefissate la “liberazione” della Palestina. Hamas è solo un’altra sigla che si è data il medesimo obbiettivo.
Distinguere Hamas da Fatah, è una distinzione che ha senso unicamente in merito all’impianto programmatico, all’incidenza maggiore o minore dell’aspetto religioso, ma non alla sostanza. L’antisemitismo di Abu Mazen, di cui ha dato ripetutamente eloquenti prove, non è diverso da quello di Khaled Meshal, o di Ismail Haniyeh o di qualsiasi altro dei maggiorenti di Hamas, così come non è diverso il desiderio di vedere estinto lo Stato ebraico, solo che, mentre Fatah ha adottato la politica di un costante rigetto di ogni possibilità di accordo con Israele, incolpandolo sempre per il fallimento dell’intesa, Hamas ha escluso fin da subito ogni istanza negoziale.
La guerra che Israele sta combattendo non è una guerra solo contro Hamas, è una guerra contro lo stesso nemico con cui ha sempre combattuto e che, ancora prima della sua nascita, agiva affinché essa non avesse luogo, è una guerra contro chi ha un’idea di mondo e un insieme di valori incompatibili con la democrazia, è una guerra contro ciò che l’Occidente ha saputo incarnare e radicare come la forma più evoluta del proprio destino politico e culturale. Ecco perché la guerra che Israele sta combattendo è la nostra guerra, la stessa che combatte dal 1948 per garantirsi la propria forma di esistenza, quella forma di esistenza che per noi europei è presuntuosamente ritenuta garantita, fino a quando scopriamo, improvvisamente, come ci ha mostrato la guerra in Ucraina, che non dovremmo esserne poi così sicuri.
di Niram Ferretti