Di chi è la Palestina?

martedì 7 novembre 2023


L’eterno conflitto

A quanto pare, in questa storia infinita di massacri in Medio Oriente, il dante causa ha il volto del fondamentalismo religioso. Quello ebraico della Torah e quello islamico del Corano. Tutti e due fanno della Palestina un suolo e un luogo “sacro e inviolabile” per entrambi quei due popoli del Libro. Ma, se per ciascuno di loro quella terra è unica e indivisibile, serve un altro Dio che li metta entrambi d’accordo per finirla con i reciproci massacri. E poiché tutto ciò “non” avverrà, rassegniamoci alla violenza ciclica delle loro guerre a bassa intensità, sperando sempre che qualche altro Stato fondamentalista guerrafondaio (vedi Iran) non scoperchi la pentolaccia e scateni i demoni di un nuovo conflitto mondiale. In particolare, in questa crociata storica dell’islamismo, Hamas considera la Palestina alla stregua di un “bene religioso” da riconquistare in nome di Dio. Questo assunto escatologico fa di Gaza, Cisgiordania e Israele una “terra divina” nella sua interezza, della quale pertanto non si può disporre a proprio piacimento, come invece vorrebbero fare i dirigenti dell’Olp e dell’Autorità Palestinese che, a questo punto, diventano i nemici giurati dei movimenti islamici radicali. Quindi, se per entrambi si tratta di un luogo “indisponibile” per chiunque altro, allora solo chi eliminerà con la Spada (sempre divina) il rivale avrà diritto a rimanere!

A perdere nella lunga distanza non potrà che essere l’Occidente, se non altro per la forza dei numeri e della demografia dei suoi nemici giurati, soprattutto nel caso che l’islamismo radicale dovesse permanere e fortificarsi nel tempo. L’azione vittoriosa di Hamas del 7 ottobre e la susseguente distruzione di Gaza da parte di Israele ha chiamato a raccolta la comunità mondiale (Umma) dei musulmani, a sostegno della Questione palestinese e della cancellazione dell’Entità sionista dalla regione mediorientale. E il resto del mondo che cosa fa? Per colpa, o per merito, della osannata laicità, oggi gli occidentali non sanno, né hanno alcuna intenzione di morire per una qualsiasi religione, preferendo i piaceri della vita e, possibilmente, delegando a qualcun altro la “forza” necessaria per difendere quei loro privilegi e gli spazi di libertà individuale garantiti dai sistemi democratici di governo del Global North.

Il vero paradosso consiste nel fatto che mentre i governi autocratici mediorientali (Arabia Saudita, Turchia, Egitto) si andavano orientando con gli Accordi di Abramo a far prevalere la diplomazia nei loro rapporti con Israele, sul versante opposto le rispettive società andavano in direzione contraria, radicalizzandosi sempre più negli aspetti religiosi tradizionali. Di fatto, ogni volta che c’è stata una crisi nella regione, a uscirne vincitore è stato sempre l’islamismo, come è accaduto nel caso della rivoluzione siriana, degradatasi da lotta democratica a un conflitto di matrice salafita e jihadista contro il regime di Damasco. Ma lo stesso è accaduto in Tunisia (dal 2012, il Partito Ennahda, nato da una costola della Fratellanza musulmana, ha avuto la maggioranza assoluta in Parlamento) ed Egitto, dove le così dette “primavere arabe” hanno visto i fratelli musulmani prevalere alle successive elezioni, per poi essere esautorati dalle svolte autoritarie del tunisino Kaïs Saïed e dell’egiziano Abdel Fattah al-Sisi. Più in generale, facendo leva sull’identità religiosa, l’islamismo rappresenta per molti arabi, grazie alla vantata “superiorità etico-morale dell’Islam”, il solo mezzo per contrastare lo strapotere tecnologico dell’Occidente, ritenuto “corrotto e depravato”.

L’orgoglio islamico per il 7 ottobre deriva dal fatto che si è trattato di un atto concreto e tangibile di liberazione della Palestina, poiché Hamas ha affermato con la sua violenza cieca e aberrante una propria sovranità temporanea sul già inviolabile territorio israeliano. E proprio il massacro che ne è derivato ha rappresentato una fonte di godimento collettivo per molti islamici radicali, dato che, grazie alla terribile iniziativa di Hamas, è accaduto che per un solo giorno il sogno della liberazione della Palestina sia divenuto realtà. Dopo la distruzione dell’ospedale di Al-Ahli Arab a Gaza, le manifestazioni popolari di protesta del mondo arabo si sono estese dal Marocco e dalla Giordania ad altre piazze islamiche più radicali, come quelle turche e yemenite. E poiché nessun Paese arabo è in grado oggi di prendere le armi contro Israele, le loro opinioni pubbliche, preso atto della debolezza dei loro rispettivi Stati, potrebbero essere sempre più tentate di aderire in massa ai movimenti jihadisti. Del resto, quando nel 1978 gli Accordi di Camp David posero fine (nella sua forma statuale) alla guerra tra Israele e i Paesi arabi, da quel momento in poi si è assistito al dilagare di conflitti asimmetrici (e limitati) contro lo Stato ebraico condotti da gruppi di miliziani, come Hamas e Hezbollah, che si sono presentati sulla scena mediorientale con una dimensione atipica, risultante da un mix di istanze religiose, militari, sociali e politiche.

Cosicché la conflittualità nei confronti di Israele è passata dalle forme statuali a quelle più marginali e violente delle milizie islamiche, non riconosciute né legittimate sul piano internazionale. Da qui nasce nei Paesi arabi, e soprattutto nell’uomo della strada, l’ambiguità verso il terrorismo, che viene talvolta condannato, ma molte altre volte ammirato, quando gli jihadisti riescono a colpire gli interessi della superpotenza americana e degli israeliani. L’eccidio del 7 ottobre, cui ha fatto seguito l’aspettato, temuto e voluto eccesso di reazione da parte israeliana, è stato pazientemente costruito da Hamas, che ha pianificato per anni l’attacco del Sabato nero al cuore dello Stato e all’orgoglio israeliani, cancellandone il mito dell’inviolabilità territoriale e della invincibilità del suo esercito. Del resto, dal fallimento dei negoziati di Camp David del 2000, si è assistito al disimpegno Usa nella regione, lasciando incompiuto il processo di pace. Da un lato, infatti, si è lasciata sviluppare la gangrena di una colonizzazione israeliana a macchia di leopardo (che ha minato, forse per sempre, la possibilità di ricostituire un territorio palestinese organico e omogeneo) in Cisgiordania.

Dall’altro si è favorita una partizione della Palestina in due Stati, con il totalitarismo autoritario di Hamas a presidiare Gaza dal 2007, mentre l’amministrazione della Cisgiordania è stata demandata alla corrotta e screditata Autorità palestinese di Abu Abbas. Allora, a un passo dal successo, Washington e Tel Aviv sono caduti nella trappola tesa sia dagli estremisti di Hamas, che hanno orchestrato l’impressionante ondata di attentati suicidi nel 2000, sia dalla destra radicale israeliana che, con la passeggiata proditoria di Ariel Sharon sulla Spianata delle Moschee, ha provocato la Seconda intifada, favorendo l’avvento al potere di Benjamin Netanyahu e disintegrando così il progetto “Due popoli, due Stati”. Ce la farà il duo Biden-Blinken a riportare indietro di venti anni l’orologio della Storia?


di Maurizio Guaitoli