Israele-Hamas: il mercato degli ostaggi

mercoledì 1 novembre 2023


La questione degli ostaggi è un gemito che perseguita Israele dagli anni Sessanta. Una forma di “mercato” che colpisce profondamente gli animi di chi rappresenta la “merce”, ma che impone anche l’obbligo a chi contratta il riscatto di adattare la propria strategia sulla rigidità alla negoziazione. Però, tra l’adottare una rigida “strategia contrattuale” con i rapitori e applicarla, si spalanca il baratro delle negoziazioni individuali che sono legate a “dinamiche di mercato” dai risvolti imprescindibili. Così, per lo Stato israeliano la tratta degli ostaggi è una delle minacce più continuative della sua esistenza. Infatti, in questa perversa vicenda, dove l’umanità e la forsennata e contraddittoria ostentazione della osservanza religiosa si annichiliscono dietro a obiettivi di ordine economico, a volte mascherati da mire politiche e geopolitiche, vediamo liberare per primi ostaggi giovani e in salute, mentre bambini di pochi mesi restano tenuti nel dedalo delle gallerie sotto Gaza in condizioni conosciute solo a chi ha provato questa esperienza atroce.

La “vicenda degli ostaggi” vive nascosta in un buio antro della memoria degli israeliani. E sistematicamente occupa spazi che spesso si accrescono. Le responsabilità di tale aberrata espressione sub-umana vengono addebitate a chi detiene il potere governativo in quel dato momento. Come dimostrato dal video prodotto da Hamas tre giorni fa, dove sono apparse tre donne israeliane che con furia si sono appellate direttamente a “Bibi”, il premier Benjamin Netanyahu, accusandolo di non avere fatto nulla per la loro sicurezza e di fare ogni cosa per liberarle. In altre occasioni, dove si è verificata la tratta degli ostaggi, nazioni come Russia, Stati Uniti, Francia, Gran Bretagna e altre hanno avuto l’obiettivo sovrano di riportarli a casa. Tuttavia, spesso non è stato possibile, ma questo non ha mai messo in discussione la credibilità dello Stato stesso. Contrariamente a quanto accade in Israele: la liberazione degli ostaggi è per Israele una esigenza fondamentale. La sicurezza e l’integrità dei cittadini deve essere ottenuta a qualunque prezzo. E ciò è la sottintesa convenzione affidata, dal popolo israeliano, ai propri governanti. Per capire quanto valga riportare a casa i rapiti, basta considerare il valore che hanno i loro morti, anche se periscono in mano al nemico: la nazione è disposta a cedere a importanti richieste per recuperare la salma. La necessità di celebrare i riti funebri religiosi è il fattore trascinante di questa disponibilità a negoziare. Così, questo destino prosegue il suo percorso. Un sortilegio crudele, che si ripete ed è nutrito da una ciclicità viziosa, dove impera la vendetta reciproca.

Non solo Hamas ha utilizzato lo strumento degli ostaggi per ottenere varie tipologie di riscatto. La storia del conflitto israelo-palestinese è disseminata dalla presa di ostaggi che si configura come una realtà persistente, chiunque sia l’antagonista di turno. Ricordo il Fplp, Fronte popolare per la liberazione della Palestina, ma anche Settembre nero, organizzazione terroristica fondata dai fedayin palestinesi attiva solo dal 1970 al 1973, ma autrice di efferate azioni terroristiche. Lunedì è stata liberata una soldatessa israeliana di 19 anni, Ori Megidish rapita il 7 ottobre dopo la carneficina di Hamas: la notizia è stata annunciata tramite un comunicato stampa dall’esercito israeliano, dopo un’operazione effettuata nella Striscia di Gaza nella notte tra domenica e lunedì. Kiryat Gat, cittadina ubicata a meno di venti chilometri dal confine tra Israele e Gaza, ha dato i natali a Ori Megidish. Secondo il quotidiano Haaretz ed altri media israeliani, la soldatessa era in forze nella vigilanza della base militare di Nahal Oz. Da lì è stata trascinata nei tunnel scavati sotto la città di Gaza. L’operazione di salvataggio – condotta da uno dei tre servizi segreti del Paese, lo Shin Bet e dalle Idf, le Forze di difesa israeliane – risulta che sia stata pianificata con diversi giorni di anticipo. Durante il blitz che ha liberato la soldatessa, nessun militare israeliano è stato ucciso. Ori Megidish è stata tenuta insieme ad altri ostaggi, fattore che solleva alcune riflessioni su quanto ufficialmente comunicato circa le dinamiche della liberazione. Il quotidiano The Times of Israel ha reso noto che i “servizi” non intendono rilasciare dettagli sull’operazione.

Come possiamo vedere, le “dinamiche” che portano alla liberazione degli ostaggi seguono strade dai tracciati indecifrabili. Come per gli ostaggi di Saddam Hussein (di cui lo scrivente fece parte), in Iraq, nel 1990, quando anche Cassius Clay, alias Muhammad Ali, intercesse personalmente verso “Saddam” per liberare un cospicuo numero di statunitensi, pure per gli ostaggi israeliani in mano ad Hamas si notano movimenti che abbracciano cause singole e non su base umanitaria. Ma nel cinico quadro attuale, dove innocenti israeliani e palestinesi subiscono orride atrocità, è utopistico immaginare che la “questione umanitaria” possa prevalere sugli altri fattori vicini alla “deflagrante disumanità” che sta caratterizzando la crisi globale del vicino Oriente. Comunque, mentre i quattro ostaggi precedentemente rilasciati – tutte donne – sono stati liberati per volontà del movimento terroristico palestinese, sicuramente pagando un “pedaggio”, per la prima volta dall’inizio della guerra tra Hamas e Israele è l’esercito israeliano a essere riuscito a liberare un ostaggio, senza il consenso di Hamas. Visto il blitz, è singolare che Ori Megidish sia stata sola. Secondo l’ultimo computo dell’esercito israeliano, vi sono ancora almeno 240 ostaggi israeliani e stranieri nei cunicoli sotto Gaza.


di Fabio Marco Fabbri