Israele: una onnipotenza da ricostruire

giovedì 19 ottobre 2023


Dalle ceneri della Shoah è nato lo Stato di Israele, una nazione con un perimetro geografico drammaticamente mobile che, tuttavia, garantiva a tutti gli ebrei parcellizzati sulla Terra che una “forza” li avrebbe per sempre protetti dalle loro ataviche fragilità. Per settantacinque anni lo Stato ebraico ha combattuto per conservare la sua esistenza, consolidando la narrazione di una forza che si è ingigantita fino a oggi. Quando una crepa, un po’ più profonda, si è aperta nella cupola protettiva, riportando i parametri di sicurezza sui binari del dubbio.

L’attacco dei palestinesi di Hamas ha ricondotto la percezione di “onnipotenza” all’interno di criteri di giudizio più concreti e commisurati con una realtà di interferenze geopolitiche molto più articolate. Quindi, considerare ora come nemici attivi non solo le organizzazioni (terroriste o meno la differenza è irrilevante) presenti all’interno del territorio palestinese, diventa una necessità concreta in una realtà certa e persistente. L’Iran, regista indiscusso dell’operazione di Hamas, rappresenta al momento un fronte da considerare anche in funzione della sua ricerca di acquisire un ruolo geopolitico, attualmente degradato dalla crisi anche interna e dal raggiunto anacronismo del regime degli Ayatollah, ormai rifiutato dalla maggior parte degli iraniani. E comunque alla fine fisiologica del suo ciclo socio-politico. Il Qatar è stato sempre vicino, soprattutto finanziariamente, ad Hamas tramite la presenza dei Fratelli musulmani tra le fila dell’organizzazione. Da Doha, loro sede prediletta, tramite varie organizzazioni – la Qatar Charity è una – finanziano ogni azione che risponda all’ideologia fondamentalista. Distinguere Hamas dai Fratelli musulmani è in pratica un esercizio poco produttivo. Così l’Egitto, nell’attuale dinamica umana scaturita all’interno della Striscia di Gaza, è accorto affinché i Fratelli musulmani presenti nel territorio palestinese non tracimino oltre il confine egiziano.

Circa dieci giorni prima dell’aggressione di Hamas a Israele in occasione della ricorrenza dello Yom Kippur (6 ottobre 1973), la terza donna rabbina della Francia, Delphine Horvilleur, nella sinagoga di Beaugrenelle, a Parigi, ha tenuto un discorso. Nel suo sermone ha manifestato la profonda preoccupazione per l’evoluzione politica dello Stato di Israele. Soprattutto, ha espresso grande perplessità sul Governo di destra che, a suo dire, nell’illusione di essere uno Stato onnipotente in realtà rappresenta una grave minaccia per il Paese. Horvilleur, quasi profeticamente, aveva percepito e descritto nella sua omelia un Israele conscio dei suoi difetti, timoroso della sua vulnerabilità. La rabbina quarantacinquenne ha espresso sofferenza, come molti israeliani, per la terribile crisi che attraversa il Paese. Il partito al potere, ha continuato, è estremamente polarizzato, guidato da un Esecutivo e da ministri che professano “messianismo ultranazionalista”. A questo fa eco uno spiccato aumento del fanatismo religioso, rappresentato anche con violenza politica. In realtà, il popolo per la trentottesima settimana consecutiva è sceso in piazza per esprimere il dissenso e la preoccupazione per le sorti della democrazia nel Paese. Ogni tipo di fondamentalismo religioso tocca la sfera dei diritti, in particolare quelli delle donne. Così, anche nel caso israeliano, le sfumature misogine di un sistema politico con tendenze teocratiche pare si siano iniziate a sentire. Come pare siano stati nascosti atteggiamenti di intolleranza di giovani ebrei verso le minoranze.

È fisiologico che, in una condizione di crisi, vengano esaltati fattori che in uno stato di equilibrio difficilmente emergono. Perciò, in questi ultimi tempi si ascoltano e si sono accentuati discorsi sulla superiorità religiosa rispetto ad altre fedi. Ma sono emersi pure atteggiamenti di insofferenza verso le realtà ebraiche non ortodosse. Il tutto è supportato dalla crescita di ragioni populiste e di rivendicazioni ultraortodosse. Insomma, una sorta di contropotere che serpeggia anche mettendo in dubbio il sistema giudiziario.

Da circa un anno il presidente israeliano, Benjamin Netanyahu – al potere dal dicembre del 2022 – forte di una coalizione composta da religiosi, partiti conservatori e di estrema destra, ha imboccato una deriva autoritaria, difficilmente giustificabile se non con la volontà di creare una “metamorfosi del regime”, segno indiscutibile di una latente debolezza. Definire la fragilità di Israele, conclamatasi con la carneficina e l’invasione dello Stato, causata solo dalla grande abilità degli aggressori, credo sia limitante. Un periodo politico complesso, che direttamente tocca anche i Sevizi segreti, e un sistema sociale avvolto dall’ineguaglianza delle emozioni collettive di fronte alla sofferenza costituiscono la peggiore debolezza. E la fonte più eclatante di tragedie. Dal ritiro degli insediamenti israeliani da Gaza, questo è il quinto episodio della guerra tra Hamas e Israele. Che ricordo qui: alla fine del 2008 “Piombo fuso”; nel 2012 “Pilastro della difesa”; nell’estate 2014 “Margine di protezione”; nel 2021 “Guardiano delle mura”. La ricostituzione della percezione dell’onnipotenza di Israele dovrà passare inesorabilmente “tra le lapidi”. Ricordando che, dalle stime attuali, lo Stato ebraico pare sia dotato di almeno centocinquanta (100/200) ordigni nucleari. Quindi, anche se una nazione con l’atomica non potrà mai perdere una guerra, ciò non significa che sia onnipotente.


di Fabio Marco Fabbri