lunedì 9 ottobre 2023
Difficile credere che i Servizi israeliani − il Mossad o lo Shin Bet − non si siano, minimamente, accorti di ciò che stava bollendo in pentola. La preparazione di un attacco su tale scala e così sincronizzato − con la saldatura tra il sunnita Hamas e lo sciita Hezbollah e forse l’appoggio di Teheran − non può non aver lasciato traccia. Il Mossad, che in Iran riesce a monitorare (e, a volte, a sabotare) gli impianti per l’arricchimento del materiale nucleare, non ha captato segnali che qualcosa di estremamente pericoloso era imminente? Il tutto nella dolorosa ricorrenza dell’attacco congiunto, sferrato da Egitto e Siria, nello Yom Kippur, il 6 ottobre 1973, che trovò, sorpresa e impreparata, la difesa israeliana.
Ma questo accadeva 50 anni fa: non esistevano gli odierni mezzi di sorveglianza elettronica o i sistemi software di intercettazione e decrittazione o gli ombrelli antimissile. L’Arpanet americano era ancora lontano dal diventare il world wide web.
Oggi, chi viaggia in Israele vede quanto capillare e scrupolosa sia la sorveglianza dei Servizi di sicurezza sulle attività sospette. Al confronto di quello che è successo pochi giorni fa, l’Intifada è una banale sassaiola. Come può essere sfuggita alle antenne dei servizi di informazione (non solo israeliani, anche Usa) un evento di questa portata?
Vari commentatori ipotizzano che, oltre al possibile supporto di Teheran, vi sia stato il coinvolgimento della Russia. Ci sembra improbabile, visto che Israele non si è mai apertamente schierata contro Mosca nel conflitto ucraino. E inoltre che interesse avrebbe Mosca a mettere a repentaglio il partenariato, all’interno dei Brics, con l’Arabia Saudita che ha, ormai, normalizzato le relazioni con Israele?
La Storia, da tragedia, si ripete in farsa: l’attacco giapponese a Pearl Harbour − secondo i carteggi desecretati dal governo Usa − non era inatteso perché i messaggi della flotta imperiale, intercettati e decifrati, fornivano chiaro allarme sull’imminenza dell’aggressione. Un esplicito monito era arrivato anche dal Generale Patton che, all’epoca, si occupava di intelligence nel Pacifico. Secondo vari testimoni, tra cui il capo dell’Oss Donovan, il Presidente Roosevelt, alla notizia del bombardamento, non dimostrò né sorpresa né turbamento: il suo celebre discorso, sul giorno dell’infamia, rimosse le esitazioni dell’opposizione repubblicana a intervenire contro le forze dell’Asse, facendo diventare mondiale il conflitto.
A questo punto, che vi sia effettivamente la responsabilità di Mosca o di Teheran poco importa, basta che questo appaia credibile per legittimare, di fronte alla pubblica opinione, l’escalation del confronto militare, sempre più globale: un’altra proxy war da combattere, questa volta, in campo aperto, tra Israele e Iran. La Repubblica degli Ayatollah, oltre ad avere nella sua legislazione l’obiettivo della distruzione di Israele, è anche l’armeria dei droni schierati da Mosca nel conflitto ucraino. Inoltre, quale migliore occasione per destabilizzare, dividendola, l’avanzata dei Brics in Medio Oriente e, soprattutto, per ridare impulso all’impegno nella controffensiva ucraina che langue, sia sul campo che tra gli alleati occidentali? L’Europa che, finora, non è mai riuscita a proporsi come solutore delle crisi, continuerà a recitare il suo ruolo da comprimario, in attesa di direttive da oltre Atlantico.
di Raffaello Savarese