Perdendo l’Africa: il jihadismo nero

mercoledì 6 settembre 2023


Quanti e quali interessi vitali dell’Occidente sono a rischio con il colpo di Stato militare in Niger e in Gabon? Può il Global West considerare fin da ora il grande Continente Nero come un suo prossimo e implacabile competitor, collocato sul fronte avversario del Global South? Per ora, quanto sta accadendo in Sahel e nelle regioni africane mediterranee e centrali, sempre più turbolente e orientate verso le autocrazie civili o militari e prossime al collasso, creano forti timori in Europa. Soprattutto per il rischio delle migrazioni di massa, con le conseguenti ricadute negative in termini di sicurezza e della tenuta dei confini comuni europei. Per Stati Uniti ed Europa il golpe in Niger solleva questioni urgenti e di vitale importanza strategica sul contenimento delle milizie islamiste dell’Isis e di Al-Qaeda nel Sahel, lungo il quale si allinea e si sovrappone la famosa “golpe belt”. Ed è qui che i jihadisti stanno avanzando a passi da gigante, dal deserto fino al mare, dando così l’impressione di una “fusione del nocciolo” delle strutture democratiche africane. Cosa strana e non sufficientemente studiata, infatti, è la migrazione letterale dello Stato Islamico dall’area mediorientale e dal Sud dell’Asia verso l’inarrestabile conquista dell’Africa sub sahariana. In tal senso, la violenza jihadista vanta il triste record di essere la causa principale delle 6.700 uccisioni di civili e militari africani registrati nel solo 2022.

Per sostenere Niamey, gli americani hanno investito 110 milioni di dollari per la costruzione di ben due basi di droni anti-Jihad, la prima a Niamey e la seconda ad Agadez, e sono altresì presenti nel Paese con un contingente di 1.100 soldati. Ovviamente, per la politica del domino, se gli Usa si ritirassero dal Niger lo spazio che lascerebbero vuoto sarebbe immediatamente occupato dai russi, il cui coinvolgimento è stato più volte invocato nelle manifestazioni di piazza a sostegno dei golpisti. Puntualmente, infatti, Vladimir Putin, in occasione del suo recente incontro a Pietroburgo con i leader africani, ha proposto ai suoi ospiti di “liberare le loro Nazioni dal colonialismo e dal neocolonialismo”. Ben sapendo che i suoi mercenari della Wagner hanno approfittato della loro presenza anti-jihad in quei Paesi per fare incetta di oro e diamanti, commettendo en passant vari crimini contro l’umanità. E qui c’è da capire come una comunità denominata Ecowas (“Economic Community of West African States”, una sorta di Cee africana) possa trovare un accordo per un’azione militare comune che obblighi i golpisti nigerini a reinsediare il presidente deposto. Anche se, occorre dire, nell’Ecowas chi conta davvero è la Nigeria, in assoluto lo Stato più ricco e meglio armato di tutti gli altri, con un esercito forte di 223mila effettivi e una consistente flotta di aerei da caccia di fabbricazione americana, cinese e tedesca. Ma un intervento militare dall’esterno alienerebbe al presidente deposto, Mohamed Bazoum, il sostegno popolare, influenzando negativamente l’opinione pubblica nigerina.

Per di più, a seguito dell’invasione, si darebbe modo alla guerriglia jihadista, finora confinata nelle zone rurali, di penetrare nei grandi centri urbani come Niamey. Tra l’altro, dal punto di vista geopolitico, un eventuale passaggio alla prova di forza da parte dell’Ecowas dividerebbe l’Africa dell’Ovest in due fronti distinti. Il primo, che ricomprende Mali, Niger, Burkina Faso e Guinea, presidiato dalle giunte golpiste, mentre sul secondo si troverebbero schierati tutti quei Paesi africani dell’Ecowas contrari alle nuove autocrazie militari. Il che causerebbe un nuovo conflitto tra Stati africani di cui si era fortunatamente perduta memoria nel tempo. Altri Paesi come l’Algeria si oppongono all’intervento armato per il ripristino dell’ordine democratico, così come molte delle loro opinioni pubbliche si oppongono all’iniziativa Ecowas, e persino il Senato della Nigeria ha espresso in merito parere contrario. Ovviamente, alla fine a prevalere sarà l’opzione diplomatica che, poi, è sempre la solita: i golpisti accettano di nominare un Governo misto civile-militare e di indire nuove elezioni il più rapidamente possibile. Anche se, dai primi passi della crisi, è possibile rilevare la ferma intenzione della giunta militare di Niamey di rimanere al potere. Per la Francia sarebbe un vero smacco, in quanto si vedrebbe costretta a ritirare il suo contingente, perdendo la sua più importante base africana. Ma se ciò dovesse accadere, Parigi farebbe bene a incolpare solo se stessa per le scriteriate politiche di ingerenza che sono state adottate dai suoi governi, a seguito del processo di decolonizzazione.

E qui va detto che negli ultimi 60 anni la Francia si è inserita, forzando la mano, nelle politiche e negli affari commerciali (sottoscrivendo lauti contratti) delle sue ex colonie francofone, in base alla retorica nazionalista della “Françafrique”, un modo come un altro per riprendersi pacificamente gli spazi di cui godeva prima della decolonizzazione, con il sostegno evidente delle sue élite militari nostalgiche. In tal senso, uno strumento monetario di conservazione/penetrazione della sua influenza è rappresentato dal “Franco Cfa” adottato in ben 14 Paesi africani francofoni e garantito dalla Banca centrale francese. Grazie al Cfa, tuttavia, si è stabilizzato il tasso regionale di cambio, anche se poi la valuta stessa ha favorito il rimpatrio dei profitti delle imprese francesi, e fortemente sostenuto gli acquisti in valuta pregiata di beni di lusso Made in France da parte delle élite africane.

Storicamente, in passato ci sono stati non pochi interventi militari diretti dell’Armée per rimettere ordine in Costa d’Avorio (nel 2002 e nel 2011), nella Repubblica Centrale Africana (beneficiaria di ben sette interventi militari francesi), e in Libia per estromettere Gheddafi nel 2011. Per finire con i raid aerei del 2013 in Mali, al fine di impedire l’avanzata dei jihadisti. Il tutto, senza mai ricercare il concerto con le altre Nazioni europee, né tanto meno con l’Onu. E i risultati si vedono. “Fuori la Francia dal Niger”, si legge nei cartelli esposti dai manifestanti a sostegno dei golpisti di Niamey. Chi la fa, l’aspetti, insomma, se è vero che nelle 20 ex colonie francesi intellettuali e comuni cittadini manifestano apertamente nelle strade l’odio antifrancese, facendo di Parigi un capro espiatorio per tutti i loro gravissimi problemi interni. Il Pensiero Unico farebbe bene a chiedersi perché Continenti ricchissimi sono ridotti alla fame, alla violenza e alle migrazioni di massa, e di chi sia la colpa per la mancata redistribuzione di quelle immense ricchezze!


di Maurizio Guaitoli