“Red carpet” per Modi: l’India e il Global West

martedì 4 luglio 2023


Allora: ha funzionato il red carpet che Washington ha steso a fine giugno davanti al “democratico” Primo Ministro carismatico dell’India, Narendra Modi? Anche se tutto il mondo libero ha seri dubbi sul profilo garantista del nuovo Governo, eletto per la verità con un consenso popolare che l’attuale America si sogna.  

Come al solito, resta colmo a metà il bicchiere del riavvicinamento tra India e Occidente, dato che si tratta di far dialogare due mondi completamente diversi tra di loro. Ma, è chiaro per tutti, che senza la collaborazione e, purtroppo, un serio riarmo dell’India (che oggi possiede in prevalenza tecnologia militare russa), non sarà possibile formare un’alleanza per il controllo dell’Indo-Pacifico. Area geostrategica quest’ultima, divenuta oggi di vitale importanza nella ormai conclamata Cold War II, anche a causa della forte pressione militare che la Cina ipernazionalista di Xi Jinping sta esercitando su Taiwan.

Sul piano generale, va dato atto all’India delle radicali trasformazioni che in alcuni decenni (mai però come è accaduto nel caso della prodigiosa crescita della Cina di Deng Xiaoping e di Xi Jinping) hanno riscattato dalla povertà assoluta centinaia di milioni di persone, contribuendo a creare una vera e propria classe media e a costruire le necessarie infrastrutture. Ovvio che queste ultime necessitino di importanti miglioramenti, soprattutto nel caso dell’ammodernamento della rete ferroviaria, come dimostra il terribile disastro ferroviario, l’ennesimo, di questi ultimi tempi!

Se, dal punto di vista geopolitico, ci sarà in futuro un vero riavvicinamento Usa-India, lo si dovrà alla diaspora che ha contribuito sensibilmente (come è accaduto anche nel caso dell’Italia) a smitizzare la visione negativa che gli americani hanno dell’India sottosviluppata e animista, divisa in caste incomunicabili tra loro e profondamente superstiziosa e tradizionalista. Dietro le apparenze e i modi gentili di sempre, come dentro gli abiti tradizionali pacifici di Modi, si nasconde però una ben diversa realtà, evidenziata dall’attuazione nelle condotte di governo indiano di una dottrina radicale dell’induismo nazionalista. Ed è a partire da questa visione fondamentalista che il partito di Modi ha mosso negli ultimi 40 anni l’assalto a tutto campo alla democrazia, alla società civile e ai diritti delle minoranze, come denuncia sulle colonne del New York Times Maya Jasanoff, indiana di origine e professore di storia ad Harvard.

Da quando Modi è arrivato al potere nel 2014, è venuta meno su molti fronti la storica rivendicazione dell’India di essere la più grande democrazia del mondo. Basta guardare al centosessantunesimo posto in cui è precipitata New Delhi, su 180 Nazioni, per quanto riguarda la libertà di stampa, in base alla classifica annuale curata dall’Academic Freedom Index. Il che fa pensare a una netta deriva dell’India verso le grandi autocrazie, transitando oggi per l’area più sfuggente delle “Democrazie attenuate”.

Ovviamente, il governo Modi ha ribadito che questa classifica negativa si basa su di una non meglio specificata “percezione” dell’opinione pubblica internazionale (tipo la temperatura percepita quando fa caldo e l’umidità è al 100 percento), smentita dai dati oggettivi che riguardano il silenziamento sistematico dei suoi critici, realizzato ricorrendo a reiterati raid nelle sedi delle Ong e negli uffici studi dei media non governativi; al giro di vite sui permessi di entrata e di uscita dal territorio indiano; alle denunce strumentali e tendenziose a tutto campo contro gli oppositori politici.

Altro dato oggettivo della “one-way” induista antimusulmana: la cancellazione della storia musulmana dai libri testo scolastici; la ridenominazione in lingua indi delle città con nomi musulmani; la restrizione dell’autonomia per i soli Stati a maggioranza musulmana dello Jammu e del Kashmir. E poiché il ruolo delle donne ha il suo peso in una democrazia compiuta, anche qui il regime di Modi mostra tutto il suo misoginismo, non avendo minimamente incentivato l’occupazione femminile, che rimane ferma a un desolante 20 per cento della forza lavoro indiana. Altro dato che fa riflettere, secondo Maya Jasanoff: l’un per cento della popolazione indiana possiede il 40,5 per cento della ricchezza del Paese, e questo divario non ha fatto che aumentare dal 2014, favorendo quella forma deleteria di capitalismo familistico che fa tanto assomigliare l’India all’oligarchia della Russia odierna.

Tra l’altro, i dati statistici sull’economia indiana dimostrano che la disoccupazione aumenta, mentre salgono contestualmente i prezzi dei beni alimentari di prima necessità e restano al palo gli investimenti nella sanità pubblica. Tanto per frustrare i tentativi degli Usa di fare dell’India un alleato strategico nella lotta al cambiamento climatico, Modi ha usato le maniere forti con i movimenti ecologisti e addirittura rimosso dai libri di testo delle medie inferiori la tabella degli elementi periodici!

Tra l’altro, proprio negli Stati Uniti, grazie alla diaspora indù, sono state aperte in territorio americano qualcosa come 200 sezioni del movimento induista Rashtriya Swayamsevak Sangh (abbreviato come Rss), organizzazione paramilitare di volontari armati della destra nazionalista indù, alla quale appartiene lo stesso Modi. Al quale, occorre ricordare che, in precedenza, fu negato il visto per gli Stati Uniti, in quanto ritenuto responsabile dell’eccidio di indiani musulmani avvenuto nel 2002. E, ovviamente, il governo indiano di Modi ha sistematicamente mentito al resto del mondo sulle statistiche della pandemia, minimizzando il numero di decessi. Non per nulla, l’India offre un inquietante esempio di come l’autoritarismo possa sabotare una democrazia multietnica nell’era di Internet, anche per via della limitazione crescente dell’autonomia del potere giudiziario indiano. Modi non sarà Putin ma, a quanto pare, ne trae decisamente ispirazione.


di Maurizio Guaitoli