Sudan: le urla sorde degli stupri

lunedì 5 giugno 2023


Come di consueto una guerra che si protrae nel tempo, soprattutto se circoscritta, tende a distogliere le attenzioni di chi non la combatte, facendo assuefare la vera percezione della tragedia. In Sudan si sta celebrando l’ennesimo dramma sociale africano, che lentamente si allontana dagli sguardi internazionali e principalmente dal radar delle informazioni. Lo scontro tra i due generali Abdel Fattah Al-Bourhan e il “ribelle” Mohamed Hamdan Dagalo, noto come “Hemetti”, dopo avere causato una onda d’urto che ha toccato pericolosamente i Paesi confinanti, si sta involvendo in violenze interne che martoriano una popolazione abituata alla sofferenza, ma che ora è stremata.

Come è nel “profilo” della guerra, la violenza è il pilastro che sostiene questo sistema. Eppure, ci sono delle brutalità “collaterali” che agiscono sulla società civile più fragile, e che contribuiscono ad alzare il livello di atrocità. Così, anche in Sudan gli stupri, che spesso vengono giustificati dai “carnefici” come un elemento offensivo legato allo scontro, stanno assumendo un valore esponenziale. In questo Stato diviso tra il Sahara e il Sahel orientale, lo stupro è stato utilizzato negli ultimi due decenni come arma di lotta. Recentemente, si sono verificati molti casi, che sono in crescita, causando un ulteriore dramma a una popolazione ormai in balia di gruppi di bande armate, che con modalità anarcoidi saccheggiano ed esercitano violenza su chiunque, in particolar modo sull’enorme numero di sfollati. Da fonti interne a cui fanno eco alcune organizzazioni internazionali, a Khartoum, a Bahri situata a nord della capitale, a Omdurman – ad est – e a Nyala, città principale del Sud Darfur, le violenze sessuali si moltiplicano. Gli stupratori si accaniscono sulle donne in fuga dalle aree più critiche, sulla manodopera femminile di origine etiope abbandonata dai datori di lavoro. Senza dimenticare i villaggi isolati, dove scorribande di uomini armati razziano tutto ciò che trovano, come nei centri abitati, dove penetrano negli appartamenti. E lì infieriscono.

L’Ong SihaIniziativa strategica per le donne nel Corno d’Africa – ha denunciato che da metà aprile, data dell’inizio degli scontri tra le forze armate nazionali e la milizia paramilitare delle Forze di supporto rapido (Fsr), che ha già causato quasi duemila morti, si sono registrati molti casi di stupro. In realtà, afferma la direttrice del Siha, Hala Al-Karib, il numero delle vittime è enormemente più alto. Inoltre, la storica attivista Ihsan Fagiri addebita questo clima di violenza sessuale sulle donne alla cultura patriarcale, forgiata sull’oppressione di genere e di classe sociale, anche se non è inconsueto rilevare tali coercizioni basate concetti razziali, un retaggio – questo – dell’esperienza coloniale. Un insieme di cose che ha delineato nuovi modelli sociali.

Va considerato, inoltre, che in quella che viene definita l’area dei “due Nili”, tra il Nilo Azzurro e il Nilo Bianco, esiste la triste, “ipocrita”, consuetudine di usare la violenza sessuale come arma di guerra. Una modalità piuttosto comune in tutti i conflitti. Ricordo che dal 2003, data di inizio degli scontri in Darfur, gli stupri sono stati tantissimi. La realtà è che in queste aree, dove sono state registrate le violenze carnali, non è stato svolto un solo processo per stupro: così ha dichiarato Hala Al-Karib. Ma nella stessa capitale sudanese la situazione è altrettanto critica: risulta che solo in rare occasioni sono state comminate pene detentive per stupro. E solo nel caso in cui le vittime erano minorenni. A Khartoum gli abusi sessuali sono stati perpetrati anche dalle forze di vigilanza. Come accaduto nel giugno del 2019, quando furono devastate le assemblee di protesta pacifica che chiedevano il ritorno al Governo dei civili. In quella occasione, numerose donne, di ogni età e classe sociale che manifestavano, sono state aggredite e violentate. Alcune hanno denunciato il fatto, la maggior parte è rimasta in silenzio.

Ma chi sono gli stupratori? E perché lo fanno? Le prime donne violate hanno all’unanimità accusato i gruppi armati delle Forze di supporto rapido di Hemetti. Questi miliziani sono addestrati nel terrorizzare i civili. Tuttavia, è noto che le varie bande armate, organizzate o meno, hanno l’usanza di scambiarsi le divise, per mettere in dubbio le rispettive responsabilità, confondendo ogni eventuale tipo di indagine. L’obiettivo generale è quello di creare un sentimento di vergogna e timore all’interno della comunità; una moglie o una figlia violentata rappresenta un qualcosa che demoralizza tutto il nucleo familiare, lo umilia e lo sottomette. I casi più recenti di brutalità testimoniano quanto accaduto in un quartiere signorile a nord di Khartoum, dove gruppi di bande armate hanno violentato una quindicenne e una quarantenne.

Queste violenze hanno degli effetti strazianti sulle vittime anche dal punto di vista dell’impatto sociale che procurano nelle comunità dove vivono. La violenza sulle ragazze vergini, se conosciuta, fa perdere il “valore” alla vittima. La reticenza delle vittime nel denunciare il fatto è causata dalla consapevolezza che spesso, se i parenti vengono a conoscenza dell’accaduto, nel migliore dei casi possono isolarla. E nel peggiore ucciderla. La realtà è che la verginità è un tabù che sopravvaluta la castità delle ragazze adolescenti e delle donne nubili, in un contesto dove gli aguzzini vestono la consuetudine della violenza sessuale con il mantello dell’arma da guerra. Invece, è una scorciatoia gratuita per coprire complessi, ignoranza e morbosità. Rammento che in Sudan le riforme riguardanti i diritti delle donne sono state continuamente frenate dal Governo di transizione. Tutta la legislazione è ancorata al modello dittatoriale dell’ex presidente Omar al-Bashir, deposto nel 2019.

In questo quadro giuridico, un altro martirio che affligge il mondo femminile è la lapidazione, una pena arcaica confusa tra consuetudini e religione, non scomparsa dal codice penale nemmeno durante i due anni della fallimentare transizione democratica condotta da Abdalla Hamdok, al Governo dall’agosto del 2019 all’ottobre del 2021 e dal novembre del 2021 al gennaio del 2022, prima che i generali prendessero il potere e celebrassero il funerale di una parvenza di democrazia. La lapidazione che viene applicata come “pena di morte” si basa sull’articolo 146 del diritto penale sudanese, che ha come fonte la Sharia, la legge islamica. Ricadono in questa condanna a morte quelle donne coniugate che vengono accusate, spesso impropriamente, di adulterio. Mentre le nubili accusate di fornicazione, “zina”, sono punite con 100 frustate.

Molto spesso, però, il confine tra stupro e fornicazione è volutamente confuso. Un fattore, questo, che spinge le vittime a nascondere la violenza sessuale.


di Fabio Marco Fabbri