Iran: si accendono i riflettori su Reza Pahlavi

giovedì 4 maggio 2023


Sul vacillante regime iraniano, sotto pressione da vari punti di vista ma in modo maggiore negli ultimi mesi, a causa dei tumulti divampati dopo l’uccisione della ragazza curdo-iraniana Masha Amini, in curdo – Jina – e per l’ambigua posizione di cobelligerante soft per la fornitura di droni tattici all’esercito russo, sta incombendo anche l’ombra del figlio dell’ex Scià.

Reza l’enigmatico erede della dinastia Pahlavi, il cui padre fu spodestato dalla Rivoluzione islamica nel 1979, non nasconde l’intenzione di rappresentare il futuro dell’Iran, impersonando il portatore della democrazia dopo la certa caduta della Teocrazia degli Ayatollah. Reza, che molto spesso nelle riunioni ufficiali viene appellato “vostra maestà”, e che sulla sua scheda di presentazione antecede al nome la parola “principe”, è la figura chiave dell’opposizione iraniana in esilio.

Il principe ereditario sessantatreenne, che vive a Washington, vuole essere il simbolo di una alternativa credibile al regime islamico, che ricordo è al potere a Teheran da quarantaquattro anni. Soprattutto in questi ultimi mesi il “principe” si è ricavato il ruolo di collettore dei movimenti di opposizione al regime, che orbitano in vari ambiti fuori dei confini iraniani, ma occultamente anche all’interno. Intanto, la base su cui convergono gli sforzi dei dissidenti al regime islamista è l’elaborazione di una “Carta comune”, una Costituzione, che possa essere lo strumento immediato regolatore del Sistema iraniano, in caso di “subentro governativo”, onde evitare rischi di derive anarcoidi. Dopo alcuni mesi dall’inizio delle proteste, Reza ha accelerato le sue visite a livello internazionale, al fine di dare sia una legittimazione al suo operato, sia per consentire una ampia cooperazione di scopo per perseguire la caduta del Regime degli Ayatollah che, come ogni “fattore umano”, non è eterno.

Già a febbraio Reza era in tour sia a Bruxelles che in alcune capitali europee. Poi la cruciale visita in Israele, dove ha sottolineato che “la Repubblica islamica non rappresenta il popolo iraniano”. La settimana scorsa è stato presente in Italia, dove ha potuto confermare le sue “linee guida” per una controrivoluzione laica. Così, in ogni occasione ha espresso la necessità di un futuro Iran laico, con una forte attenzione ai diritti umani, alla parità di genere, con l’annullamento di ogni tipo di discriminazione.  Quindi ha parlato della formazione di un Governo provvisorio solo per un breve periodo di transizione, in preparazione delle elezioni dei rappresentanti del popolo, nel quadro di una Assemblea costituente. Insomma, la strutturazione di uno Stato laico, che sia Monarchia o Repubblica, ma che sarà comunque una scelta del popolo. Tuttavia, non ha indugiato sul concetto che tutto questo laicismo dovrà integrarsi in un Paese islamico e sciita. Ma come sostiene il “principe”, la separazione della religione dal Governo dello Stato è la formula che sarà adottata. Va sottolineato che questa esperienza “politica” è stata già attuata in altre realtà islamiche, dove ha alternato fragili successi a solidi fallimenti.

Comunque, il regime degli Ayatollah, come quello della Turchia e dell’Arabia Saudita, ha mostrato distintamente il fallimento dell’islam politico. Certamente l’Iran, in attesa dell’esito delle elezioni in Turchia del 14 maggio, è fino ad ora il simbolo più concreto di questo fallimento politico. Infatti, le “primavere arabe” che avevano innescato reazioni violente da parte delle dittature e delle monarchie contestate hanno animato i partiti strutturati su base islamista, i quali hanno approfittato di questa opportunità politica per prendere “spazi istituzionali” nel tessuto sociale. La breve parentesi dei Fratelli Musulmani in Egitto sotto la presidenza di Mohammed Morsi (giugno 2012 – luglio 2013) è un esempio.

Ora, l’ondata di proteste in Iran ha così definitivamente spogliato il regime di ogni suo richiamo ad una primavera islamista. Infatti, rispetto ai movimenti di ribellione del 2009 che si basavano sulla manipolazione elettorale, o a quelli del 2019, dove il pedaggio in vite umane è stato altissimo, le proteste iniziate a settembre 2022 si sono incentrate sull’hijab male indossato, un “velo” diventato ottusamente e banalmente, dal 1979, “consustanziale” alla Repubblica islamica.

Ma la fragilità ideologica è crescente e ormai irreversibile; nata su una grande debolezza quella dell’ultraottantenne Ali Khamenei, il quale non aveva, sin dalla sua investitura, la “statura religiosa” necessaria per esercitare la funzione di Guida della Rivoluzione. Il potere post Scià era iniziato con quello definito dei “Mullah”, i “dottori della legge islamica”, ma la violenta gestione del potere ha sin da subito confermato il cambio di rotta.

Infatti, sia in Iran che in altri contesti socio-politicamente simili, la gestione del potere è regolata militarmente. Così la “struttura portante” dell’Iran è costituita dalle Guardie Rivoluzionarie capillarmente inserite nei gangli dell’economia nazionale, e dai bassidji, milizia paramilitare fondata dall'Ayatollah Khomeini nel 1979.

Il principe ereditario Reza Pahlavi, nei suoi molteplici interventi, ha sempre palesato quale fosse la strategia per porre fine al regime iraniano. Sinteticamente: favorire una opposizione interna attualmente controllata dal regime; sostenere le proteste di piazza con strumenti anche economici; attuare sanzioni mirate a contrastare la barcollante economia nazionale; sabotare le relazioni internazionali. Ma, soprattutto, è verosimile che un orientamento verso la soluzione Ayatollah” potrebbe averlo dato l’amico Benjamin Netanyahu. Magari svelando la “formula” per demolire quella “mafia paramilitare” che controlla il Paese.


di Fabio Marco Fabbri