Turchia: elezioni del 14 maggio, tra minacce e intimidazioni

lunedì 17 aprile 2023


L’immagine del padre della Repubblica di Turchia (1923), erede dell’Impero ottomano, Mustafà Kemal Atatürk (1881-1938), campeggia in ogni luogo pubblico e privato del Paese. Atatürk è ancora un’icona per i turchi, un grande personaggio, perché grazie a lui il popolo ha delineato la propria identità, ha acquisito una indipendenza e ha conquistato l’onore. Poi, ha assimilato il concetto di patria e successivamente ha guadagnato prosperità. In sintesi, Atatürk – affiliato alla Massoneria – dette una connotazione, applicando le proprie caratteristiche laiche e umanistiche, basando il suo concetto di sviluppo sul progresso sia scientifico che morale.

Atatürk “accostò”, in questo modo, il residuo territoriale dell’ex Impero ottomano, appunto la Turchia, agli Stati dell’Europa occidentale. Un accostamento fatto di laicità generalizzata e sufficiente libertà, considerando il periodo storico, ma soprattutto portatore di speranze e di apertura per una nuova entità geografica e politica inserita tra tradizioni a sud e importanti riassetti geopolitici a nord. Costantinopoli (Istanbul) era allora ancora definita “La Porta” d’Oriente, e questa immagine è rimasta fino ad alcuni decennio fa. Anche se, nella Storia di Atatürk, resta l’ombra della sua presenza nell’oppressione e nel genocidio armeno (1915-1916-1923), tutt’oggi negato da Recep Tayyip Erdoğan e dalla Turchia, salvo l’eccezione di alcuni storici turchi.

Comunque, la tanto decantata laicità turca, con lo scorrere dei decenni, si è gradualmente spenta, fino alla fatidica frase dell’attuale presidente Recep Tayyip Erdoğan, che da sindaco di Istanbul (1994-1998) disse: “La democrazia è come un tram, quando arriva alla fermata si scende”. E così è accaduto. La sua Turchia, dove spadroneggia dal 2014, tra complotti costruiti per eliminare l’opposizione, e il bavaglio a ogni tipo di comunicazione contro il suo operato, ha perso ogni traccia della storica laicità su cui si era fondata.

In un clima di scarsa trasparenza e moralità, il 14 maggio, si terranno le elezioni per il rinnovo della carica di Presidente della Repubblica, ed Erdoğan è in fibrillazione per la forte incertezza che serpeggia nel Paese riguardo la sua conferma. Il suo principale antagonista è Kemal Kiliçdaroglu, capo di una coalizione di opposizione, il quale sta già subendo pressioni causate dal forte clima di intimidazioni che sta dilagando nel Paese. Infatti, il 6 aprile alcuni bossoli sono stati fatti trovare nei pressi dell’edificio che ospita la sede del suo partito, il Chp, Partito Popolare repubblicano, collocato ideologicamente nel centrosinistra nazionalista. Un testimone ha affermato di avere udito almeno sei esplosioni davanti al suo ufficio. Su questo scenario di minacce e pressioni altri bossoli sono stati trovati nell’ufficio di Istanbul della leader del partito d’opposizione, Meral Akşener, ispiratrice della destra nazionalista e laica – che abitualmente non porta il velo islamico, Ḥijāb – capo dello schieramento denominato “Buon Partito” (Iyi Party).

Così, nell’arco di pochi giorni, i due maggiori partiti della coalizione di opposizione sono stati intimoriti e minacciati. Chiaramente, nessuno è stato ferito, ma tutti sono rimasti percossi moralmente. Le immediate indagini farsa hanno permesso di arrestare un sospetto, che comunque è stato subito rilasciato. Meral Akşener durante un’assemblea con i dirigenti e simpatizzanti del suo partito, con un gesto eclatante ha mostrato i bossoli trovati nella sua sede politica, gettandoli poi rabbiosamente a terra. Lei che normalmente esprime sempre pacatezza, ha dichiarato che occorre “opporsi a queste intimidazioni, e prendere esempio dai nostri antenati”, ricordando la morale e la politica proprio di Atatürk e dei padri fondatori della Repubblica.

Meral Akşener da poche ore aveva fatto un parallelo, riferendosi alle prossime elezioni presidenziali, tra la Corea del Nord guidata da Kim Jong-un e la Turchia guidata da Erdoğan; una sfida tra un’alleanza, quella capeggiata da Kemal Kiliçdaroglui, totalmente democratica, contro un sistema politico di ispirazione nordcoreano. Erdoğan ha subito ripreso le affermazioni della Akşener durante una trasmissione televisiva sul canale Atv, filogovernativo. Anche in questo caso, minacce esplicite che intimano alla leader politica di non provocare il presidente e di non mentire. Insomma, una esortazione mediatica a tacere.

Inoltre, in questi ultimi giorni è stato saccheggiato l’ufficio elettorale del Partito della Sinistra Verde filocurdo (Ysp), una formazione politica di opposizione che sostituisce il Partito Democratico dei Popoli (Hdp), sotto la procedura di interdizione della Corte costituzionale. Dal 2016, il Governo islamo-conservatore ha destituito 54 sindaci eletti tra le fila della coalizione curda, su 65. Inoltre, l’elezione di altri sei non è stata convalidata.

Il Partito Democratico dei Popoli è accusato dal Governo turco di essere legato al movimento Pkk, Partito dei Lavoratori del Kurdistan, considerato da Ankara terroristico. Accusa sempre negata dai rappresentanti dell’Hdp. Dal 1990 le formazioni politiche filocurde bandite dalla realtà politica turca sono state sette, tutte o quasi per lo stesso motivo: il legame con il terrorismo curdo. In questo clima, si sta preparando la sfida elettorale del 14 maggio, che potrà o dare una svolta laica al popolo turco, con una visione geopolitica diversa, o confermare l’autoritarismo di Erdoğan in un contesto geopolitico dove ha un ruolo decisamente discutibile e apparentemente ambiguo. Insomma, un bivio politico determinante che graverà anche sul nuovo assetto geopolitico euro-asiatico.


di Fabio Marco Fabbri