Il “Porcospino giallo”: ingoiare Taiwan?

mercoledì 12 aprile 2023


Riuscirà la Cina a ingoiare per intero il “Porcospino Taiwan”, senza soffocare a causa delle sue spine? Vediamo un attimo che cosa suggerisce l’orografia dell’isola, illustrando un breve repertorio delle difficoltà, o aculei, che attendono un eventuale (?) esercito invasore, sia da terra che per mare. Prendendo le mosse da un lungo reportage su Taiwan pubblicato dall’Obs (già Le Nouvel Observateur, il più noto dei settimanali francesi) del 6 aprile, la “lista” comprende quanto segue. Il 70 percento dell’isola è montagnoso (ben 200 cime superano i tremila metri), condizione di partenza ad alto rischio per un invasore potenziale, ed esattamente opposta a quella dell’Ucraina, che rappresenta una sorta di sconfinata Pianura Padana. Le coste perimetrali sono di difficilissimo accesso per le alte rocce a strapiombo sul mare, soprattutto sul lato orientale, in cui non esistono spiagge pianeggianti per l’approdo di mezzi anfibi d’assalto. Mentre sul lato ovest, meno aspro, i fondali sono troppo bassi, da 60 ai 100 metri, fino a risalire sullo stretto a 10 metri sotto la superficie dell’acqua, rendendo così particolarmente difficile la navigazione di una flotta da guerra. Il litorale Nord, più pianeggiante, situato nell’area geografica di Taipei, la capitale, confina con il Mar Orientale di Cina le cui acque sono sotto il saldo controllo delle forze armate americane stanziate in Giappone, con base a Okinawa. Pertanto, attaccare Taiwan dal Nord equivarrebbe per la Cina a violare un territorio marittimo da sempre controllato dagli Usa, a partire dalla fine della Seconda guerra mondiale.

Sul versante Sud, verso il Mar Meridionale di Cina, le cose non vanno molto meglio per un potenziale aggressore, dato che su questo lato dell’Oceano si affacciano molti Paesi rivieraschi che creerebbero, in caso di aggressione, un serio problema diplomatico per Pechino. Ultimo e non secondario aspetto: tutte le acque che circondano Taiwan sono attraversate dalle più grandi vie marittime del mondo intero, lungo le quali transita un tonnellaggio quotidiano di navi commerciali che è il più elevato del mondo. Traffico quest’ultimo che non si è fatto minimamente spaventare dalle grandi manovre militari cinesi. La più recente dell’8 aprile (in cui si è simulato il blocco navale dell’isola) costituisce una rappresaglia di Pechino all’incontro in California della presidente di Taiwan, Tsai Ing-wen, con il presidente della Camera dei rappresentanti, Usa Kevin McCarthy. Iniziativa quest’ultima considerata da Xi Jinping una vera e propria provocazione anticinese, anche se il 90 percento del traffico aereo commerciale americano passa per i cieli dell’isola e non ha nulla a che fare con la politica. Del resto, i transiti aerei e marittimi intorno a Taiwan coinvolgono in primo luogo gli interessi commerciali mondiali della Cina stessa. Sul piano della reazione militare, Taipei prepara da almeno 15 anni le sue difese, fortificando con basi navali e aeree i probabili (all’incirca) quindici punti di attracco di un eventuale sbarco cinese. Certo, è da prevedere, come accaduto in Ucraina, che un potenziale attacco aereonavale sia preceduto da un’offensiva missilistica su larga scala sostenuta sia dalle navi della flotta cinese, sia da ripetuti lanci dalle basi di terra collocate sul continente.

Ma, in questo caso, l’immagine internazionale della Cina ne uscirebbe depotenziata e delegittimata. Infatti, poiché la densità di popolazione di Taiwan è la terza nel mondo e ben maggiore di quella ucraina, un attacco missilistico in grande stile causerebbe una vera e propria ecatombe di morti civili “cinesi” (dato che tale per Pechino sono considerati i cittadini di Taiwan!). Certo, poi vi sono gli scenari internazionali di cui tener conto e che potrebbero rivelarsi favorevoli a un’invasione cinese. Se, infatti, salisse notevolmente la tensione nella penisola coreana, scatenando un grave conflitto (fomentato da Pechino!) tra le due Coree, allora è chiaro che tutta l’attenzione di Usa e Giappone si concentrerebbe sull’assistenza militare alla Corea del Sud, lasciando così una finestra di opportunità alla Cina per invadere Taiwan (e alla Russia per attaccare Hokkaido!), senza rischiare una guerra con l’Occidente. C’è da dire, poi, che la Cina ha già da molti anni collocato i suoi cavalli di Troia (del business planetario) all’interno del territorio di Taiwan, dato che attraverso società a capitale cinese Pechino controlla porti, centrali elettriche e reti di trasporto. E, come già accaduto, Xi Jinping potrebbe scatenare i suoi “cyberwarriors” (guerrieri cibernetici) per minare dall’interno la fiducia della opinione pubblica taiwanese.

Infatti, durante la contestatissima visita di Nancy Pelosi nello scorso agosto, gli schermi digitali di negozi e fermate della metropolitana di Taipei sono stati hackerati con spot offensivi nei confronti dell’ex speaker del Congresso Usa. Ma se Taiwan dovesse cadere in mani cinesi, il danno per il mondo intero sarebbe incalcolabile, visto che l’isola è il primo produttore mondiale di semiconduttori avanzati, di cui ormai nessuna industria manifatturiera occidentale o asiatica potrebbe fare a meno. Un rimedio contro la paura, tuttavia, è di prepararsi al peggio in caso di attacco, addestrando milioni di volontari civili ai primi soccorsi di protezione civile e affinché i taiwanesi sappiano in primo luogo auto responsabilizzarsi, senza pesare troppo sulle istituzioni. Un freno di non poco conto in questo senso deriva dalla stretta e rigida regolamentazione sulla detenzione di armi (anche per evitare colpi di mano all’interno!), rendendo problematico l’addestramento di milizie che, al contrario, hanno determinato il successo della resistenza ucraina all’aggressione russa. Anche se il 75 percento di taiwanesi si dichiara pronto a combattere contro l’invasore, pur di resistere al datong di Xi Jinping della riunificazione dell’isola alla Madrepatria cinese. Alcuni esperti arrivano ad assimilare il riarmo in questo ultimo decennio di Pechino a quello di Adolf Hitler negli anni Trenta, per ribadire la determinazione di Xi Jinping di portare a compimento ciò che Mao Tse-tung non riuscì a fare.

Nel tempo, Taipei si è adattata a combattere la sua “guerra asimmetrica”, rafforzandosi nel campo degli armamenti convenzionali. Fatti quattro conti, per Taiwan è meglio dedicare le spese militari alla costruzione di droni e armi leggere e, in particolare, di missili antinave o antiaereo, la cui fabbricazione per ciascun esemplare necessita solo due giorni di lavorazione e di una spesa molto contenuta. Del resto, vista la contingenza di un probabile attacco imminente, inutile considerare la costruzione di navi da guerra, che richiede ameno due anni e centinaia di milioni di dollari per singola unità. Il che significa privilegiare la fionda di Davide contro la mazza di Golia. D’altra parte, è pur vero che l’ex isola di Formosa rappresenta dal punto di vista Usa una sorta di “portaerei inaffondabile”, conquistata la quale Xi Jinping potrebbe ottenere la supremazia geopolitica sul suo rivale globale. Tanto per capirci: riannessa Taiwan, la Repubblica popolare cinese potrebbe sfidare in campo aperto l’attuale potenza occidentale, dispiegando un gran numero di aerei da combattimento e di navi da guerra sul fronte Sud dell’isola. Di conseguenza i sottomarini nucleari cinesi si porterebbero a ridosso delle coste canadesi, mentre ai loro equivalenti statunitensi sarebbe impedito al contrario l’accesso al Mare Orientale e Meridionale di Cina, consegnando così la supremazia atomica nelle mani di Xi Jinping. Per gli Usa, la sfida su Taiwan è doppia: oltre a quella militare, in parallelo esiste la sfida globale per il controllo delle rotte commerciali, dato che soltanto nel 2022 per gli angusti 180 chilometri dello Stretto di Taiwan è transitato la metà dei 5.400 portacontainer in circolazione nel mondo e il 90 percento di idrocarburi destinati al Giappone.

Ma, conservare Taiwan come partner privilegiato significa per gli Usa poter mantenere (e difendere) i propri interessi geostrategici nella regione, perché tutto dipenderà dal suo atteggiamento nel caso di invasione da parte della Cina. Se, in quella circostanza, Washington non si schierasse apertamente a difesa di Taipei, crollerebbe letteralmente il suo prestigio nella regione dell’indo pacifico, creando sgomento e incertezza in seno sia all’Aukus (Alleanza Usa, Inghilterra, Australia), sia ai governi alleati di Filippine, Giappone, Corea del Sud e Tailandia. E non è escluso, anzi è da dare per scontato qualora la Cina assumesse il controllo dell’Oceano Pacifico, che Tokyo e Seul penseranno seriamente di dotarsi dell’arma nucleare, a meno di non voler venire a patti con il vincitore per evitare il loro ingresso (antieconomico!) nella logica di una Seconda guerra fredda. Del resto, vantando il 60 percento della popolazione mondiale, è proprio la regione dell’indo pacifico a essere nei prossimi trenta anni il più forte contributore alla crescita del benessere globale.

Perdere la fiducia e il partenariato con quei Paesi dell’area che oggi guardano all’Occidente e all’America, significa perdere la sfida economica con il gigante cinese che ha una popolazione cinque volte superiore a quella degli Stati Uniti ed è (per ora) la seconda economia del mondo. Un ultimo, fondamentale aspetto per cui la difesa di Taiwan riguarda anche noi europei è il seguente: l’isola rappresenta il più grande produttore mondiale (detenendo il 92 percento della relativa quota di mercato) di semiconduttori avanzati, che fanno funzionare gli armamenti più sofisticati e tutti gli strumenti moderni che comportano l’utilizzo di microchip per il loro funzionamento. Se la Cina se ne appropriasse, per l’Occidente sarebbero guai seri. A buon intenditor…

(*) Nella foto sono ritratti la presidente di Taiwan Tsai Ing-wen e lo speaker della Camera degli Stati Uniti Kevin McCarthy.


di Maurizio Guaitoli