Covidizzare la Cina per vaccinare l’Occidente

venerdì 13 gennaio 2023


Insomma, che si dice a proposito di “covidizzazione della Cina”? Il reportage del New York Times (“Unease as China Reopens its borders”) attesta come il web cinese si divida furiosamente tra favorevoli e contrari alle riaperture post-Covid, decise dal Partito comunista cinese (Pcc) che da parte sua, con la recente narrativa, tenta in ogni modo di sostenere gli argomenti ufficiali a favore delle riaperture anti-lockdown. Ribaltando così letteralmente le precedenti, drastiche politiche di “Covid-zero”, che hanno visto a turno gigantesche megalopoli cinesi chiudersi ermeticamente per arginare pochi casi di contagio dal virus. Le domande provocatorie che vengono dai blog si interrogano su chi sarà da ritenere responsabile per l’inevitabile esplosione di casi di contagio e di morti “a causa di” (perché fragili e non sufficientemente immunizzati con i vaccini), o “per” Covid. Poi: gli esperti epidemiologi di nomina politica sono affidabili? Davvero vanno tollerati i fuochi d’artificio, previsti per il festeggiamento del prossimo Festival della Primavera, che richiameranno folle di centinaia di migliaia di individui? Omicron è, sì o no, meno severa del virus di Wuhan, visto l’attuale affollamento degli ospedali cinesi assediati dai malati di Covid? Insomma, nota il New York Times, l’opinione pubblica cinese si sta radicalmente polarizzando al suo interno, mettendo nel mirino (con differenti sfumature) la responsabilità del Pcc e dei suoi dirigenti, tra schieramenti contrapposti di favorevoli e contrari alle riaperture post-Covid.

Scelta quest’ultima che di “post” non ha giustamente nulla, visto che la partita dei contagi di massa e della crescita esponenziale dei decessi è appena iniziata, seguita dal solito atteggiamento negazionista delle autorità di Pechino che offrono dati ridicoli sul numero di morti, smentiti dalle più obiettive e impietose immagini satellitari delle file d’attesa nei crematori, in cui si confrontano gli effetti del prima e del post lockdown del “liberi tutti” nelle principali megalopoli cinesi. Per i censori di regime dalle forbici facili è divenuta un’impresa sempre più difficile provvedere alla “bonifica” dei messaggi postati sui social da parte degli stessi sostenitori del regime, sempre più scettici sulle politiche del Partito Comunista e dell’Imperatore Celeste Xi Jinping. E, certamente, Pechino dovrà darsi parecchio da fare per sistemare il tiro nei suoi maldestri tentativi di giustificare il suo sconcertante “U-turn” (ribaltamento a 180 gradi) delle sue precedenti politiche pro-lockdown. Con quali misure, infatti, le autorità cinesi riusciranno a contenere la crescita esponenziale dei contagi, visto che hanno già dilapidato parecchi trilioni di yuan in tamponi di massa e misure di sicurezza a sostegno delle chiusure precedenti? Come verrà rilanciata un’economia stremata dai lockdown, che rischia di compromettere la base stessa del potere del Partito e del suo leader maximo, violando così clamorosamente il patto non scritto tra il regime e il suo popolo, in base al quale il primo garantisce il benessere materiale di 1,4 miliardi di cittadini, in cambio della rinuncia da parte di quest’ultimi alle libertà politiche e al diritto di espressione?

Xi, a quanto pare, è preso nella sua stessa trappola demagogica, per cui se reprime troppo il dissenso dei suoi sostenitori pro-lockdown (che rappresentano un mix di persone reali, influencer nazionalisti online e un buon numero di “troll”!) rischia di perdere un gran numero di simpatizzanti, confusi e delusi dal ribaltamento della politica precedente, correndo per di più il rischio di rendere incomprensibile il messaggio veicolato dal suo regime e seminare ancora più incertezza nella popolazione cinese. Non pochi dei delusi sono persone in buona fede, che credono seriamente alla politica delle chiusure salva-vite, in modo da impedire al Sistema sanitario nazionale di andare sotto stress per la nota carenza di infrastrutture di ricovero/trattamento e dei presidi farmacologi, come si è avuto modo di verificare ultimamente. Altri ancora di loro sono politicamente delusi e traumatizzati, avendo seriamente creduto alla politica di “zero-Covid” (contestando veementemente fino a pochi giorni addietro i manifestanti che sfilavano a milioni per le riaperture) come una misura di superiorità della Cina rispetto al resto del mondo, e all’Occidente in particolare. Xi e i suoi sono del resto perfettamente consapevoli che l’attuale “U-turn” rispetto alle politiche precedenti anti-Covid presti il fianco sia alle polemiche interne che internazionali.

Ovviamente, più felici di tutti sono quelle centinaia di milioni di cinesi (studenti, operai, lavoratori immigrati, residenti e piccoli imprenditori) che auspicavano la fine delle chiusure per ridare spazio alla formazione scolastica in presenza, alla libertà di viaggiare di nuovo e all’allentamento dell’asfissiante presa del regime comunista, rispetto ai più minuti aspetti di condotta della vita quotidiana dei comuni cittadini.  Per evitare il peggio, persino Xi Jinping ha voluto giocare un ruolo di “democratico” in una delle sue rarissime uscite di questi ultimi tempi, dichiarando come sia “del tutto naturale per persone differenti avere differenti preoccupazioni o sostenere diversi punti di vista su determinate questioni”. Non mancando (minacciosamente) però di aggiungere che il popolo deve mettersi in riga e pensare in “un’unica, comune direzione. Perché oggi la forza stessa della Cina deriva dalla sua capacità di restare unita!”. Del resto, dopo tre anni di politiche pro-lockdown, Xi si trova ad affrontare tutte le contraddizioni del suo mandato dispotico, tali da rimettere in discussione l’assillante propaganda di regime che aveva al centro della superiorità cinese nei confronti dell’Occidente, confusionario e pasticcione, proprio le politiche selettive sulle chiusure delle megalopoli più ricche e produttive della Cina! Del resto, che cosa rispondere a uno dei tanti sostenitori del regime che chiede conto e ragione al Partito del perché della morte dello zio a causa del Covid, avvenuta proprio a seguito della politica di riaperture?

Come si fa, in questo caso, si interroga l’interessato, ad accettare il tema monocorde per cui “tutto sta andando nel migliore dei modi”? Tanto più che l’opinione pubblica cinese manifesta palesemente il suo sconcerto sulle risibili statistiche ufficiali dell’attuale ondata di Covid, che restringono a poche decine di casi il numero dei decessi. Alcuni osservatori internazionali (un po’ troppo precocemente, in questo caso) si chiedono se da queste prese di posizione “bipartisan” non possa un giorno scaturire un’autentica opposizione al regime comunista, dopo aver rimesso in discussione i dati addomesticati forniti dal Governo, le sue scelte politiche e le opinioni di comodo degli esperti da lui nominati. Financial Times dell’11 gennaio, con il suo “Xi’s plan to reset China”, suggerisce di andare oltre l’attuale caos cinese, interrogandosi sul “reset” che sta contraddistinguendo le attuali scelte di Xi Jinping in materia di relazioni internazionali e di politica economica, per provare a rispondere a quelle crisi incrociate che oggi si manifestano in Cina e nel mondo. Occorre, infatti, dare urgenti risposte al declino economico cinese, che rischia di far tornare indietro centinaia di milioni di agricoltori che sono tra i lavoratori più poveri, stabilizzando un settore sempre più malato come quello della proprietà immobiliare e risanando le finanze sempre più esauste dei governi locali. L’impegno del Governo cinese, in tal senso, è di puntare a una crescita del Pil pari al 7 per cento nel 2023, contro un risultato a consuntivo ben più basso di circa il 3 per cento nel precedente anno, il 2022.

In politica estera, la realtà è destinata a fare presa rispetto alle velleità di un’alleanza fraterna con la Russia per la costruzione di un polo euroasiatico, in contrapposizione a quello occidentale. Per l’anno in corso, infatti, gli esperti prevedono un riavvicinamento della Cina agli Stati più influenti dell’Unione europea, dato che la fallita annessione dell’Ucraina da parte di Mosca ha significativamente ridotto i precedenti livelli di investimenti dall’estero in Cina. Del resto, il regime comunista non può che avere moltissimo da perdere a sostenere un’avventura bellica sconsiderata, voluta da un pugno di gerarchi che frequentano le stanze che contano al Cremlino, con il rischio concreto che al termine del conflitto la Russia emerga come una “minor power”, ovvero una Nazione depotenziata, sia militarmente che economicamente. Dopotutto, il regime di Vladimir Putin è responsabile di non aver tempestivamente informato Pechino al momento di invadere l’Ucraina, dato che nei colloqui ristretti tra i due leader il russo avrebbe solo comunicato al suo partner cinese “di non escludere qualsiasi misura di ritorsione, nel caso che i separatisti dell’Ucraina dell’Est attacchino obiettivi in territorio russo causando un disastro umanitario”.

Un bel modo, come si vede, di mettere le mani avanti quando tutto il mondo sta prendendo atto degli immani disastri umanitari e materiali, “già” causati agli ucraini dall’invasione russa e dalla pioggia di missili e tiri di artiglieria che fanno tabula rasa di decine di migliaia di centri abitati, con conseguenti stragi di civili, per i quali Mosca sta scientificamente progettando un moderno Holodomor di sangue, gelo e fame! Secondo il Financial Times, Xi Jinping, per nulla convinto delle buone intenzioni del suo forzato alleato, intende ripristinare nell’anno in corso un minimo di buon vicinato e di relazioni costruttive con l’Europa, rassicurandola sul ruolo di contenimento che la Cina eserciterà sulle politiche avventuristiche di Mosca. Il suo migliore alleato, in tal senso? Ma la Germania di Olaf Sholz, ovviamente, che rifiuta la sola idea del “decoupling” ribadendo il suo giudizio su come la Cina rappresenti per Berlino un importante partner economico e commerciale. È l’Europa egoistica delle Patrie, come si vede, a tranquillizzare il regime di Xi!


di Maurizio Guaitoli