Xi tende la mano agli Usa: c’è da fidarsi?

giovedì 3 novembre 2022


È notizia di questi giorni che il presidente cinese Xi Jinping – di recente riconfermato alla guida della Repubblica Popolare dall’assemblea generale del Partito Comunista – sta cercando una tregua con gli Stati Uniti in seguito al clima di tensione venutosi a creare per la questione di Taiwan, specialmente dopo la visita ufficiale da parte della speaker della Camera, Nancy Pelosi. In una lettera indirizzata al Comitato nazionale per le relazioni USA-Cina che è stata letta durante la relativa cena di gala tenutasi a New York, il leader cinese ha auspicato una maggior cooperazione tra le due potenze nell’interesse di tutti, soprattutto di un mondo che deve essere stabilizzato promuovendo la pacifica coesistenza tra culture e lo sviluppo economico.

A Washington il messaggio sembra essere stato recepito: si parla di un possibile incontro tra Joe Biden e Xi Jinping in occasione del summit del G20 a Bali, in Indonesia. Questo dopo le rassicurazioni dello stesso presidente Usa, il quale ha ribadito che non è intenzione del suo Paese entrare in conflitto con Pechino e che può esserci competizione tra le due potenze pur mantenendo la pace. Gli fa eco il portavoce del Consiglio di sicurezza nazionale, John Kirby, il quale ha dichiarato che Washington farà tutto il possibile per tenere aperti i canali di comunicazione con la Cina.

Nel frattempo, si vocifera che il nuovo ministro degli Esteri di Pechino potrebbe essere Qin Gang, ambasciatore della Repubblica Popolare negli Usa: un segnale che a Washington potrebbe essere recepito come un importante gesto distensivo, non fosse altro che Gang ha cercato in tutti i modi di riportare i rapporti Usa-Cina alla normalità dopo Taiwan e che si tratta di uno dei principali fautori della politica di “leale competizione” con gli americani. Quanto è sincera l’offerta di pace dei cinesi? Davvero Pechino è pronta a deporre l’ascia di guerra se lo faranno anche gli americani?

Anzitutto, bisogna considerare quello che sta succedendo in Cina: dopo il congresso del Partito Comunista cinese, con Xi Jinping che ha ottenuto i pieni poteri e che ha già iniziato a mettere fuori gioco – per ora solo politicamente – gli avversari interni al partito, è verosimile aspettarsi una escalation autocratica senza precedenti, che farà del leader cinese il nuovo Mao Tse-tung. A queste condizioni, quante probabilità ci sono che una Cina neo-maoista percorra la via della pace, del dialogo e della convivenza? Al contrario, è molto più probabile che la politica di Pechino si farà sempre più aggressiva, sia sul lato dell’espansionismo economico che sul versante militare, specialmente nei riguardi di Taiwan. Sì, perché lasciare in pace Taiwan è una delle condizioni essenziali perché vi sia un dialogo tra Cina e Usa, considerata la grande importanza strategica dell’isola dal punto di vista della tecnologia, settore sul quale, in futuro, si giocherà la partita tra le superpotenze.

Si potrebbe richiamare alla mente la politica di Henry Kissinger, volta ad accattivarsi le simpatie della Cina di Mao in funzione antisovietica che, per analogia, potrebbe essere riportata in auge in questa fase storica. Certo, ma allora la Cina non era ancora il principale competitor degli Usa e del mondo occidentale, ma solo una potenza emergente che non doveva finire sotto l’influenza di Mosca.

Il rischio è quello di commettere lo stesso errore compiuto con la Russia e che è all’origine della situazione attuale: il motivo per cui le autocrazie tendono la mano alle democrazie è per rafforzarsi in vista di quello che sarà il loro tentativo di soppiantarle. La Cina sa di avere bisogno dell’Occidente – dei suoi mercati più che altro – per proseguire nella via dello sviluppo economico. Sviluppo significa ricchezza e ricchezza vuol dire tecnologia avanzata e armamenti potenti. Questo comporta che l’obiettivo di Pechino è semplicemente quello di ristabilire buone relazioni con gli Usa – e anche con l’Europa di riflesso – per potersi sostituire a Washington come prima potenza, anzitutto economica e poi militare, per poter esportare e finanche imporre il “modello cinese” al resto del mondo. È un processo già in atto, come ben si sa: la flotta cinese ha già più navi della Us Navy e sul settore tecnologico si stima che, fra qualche anno, il “Dragone rosso” potrebbe effettuare il grande sorpasso. Senza contare le mire cinesi sul debito degli Stati occidentali e sulle loro infrastrutture strategiche.

L’unica cosa che può impedirlo è una politica di rigore e di contenimento dell’espansionismo cinese, a partire da Taiwan, dalla difesa delle regole di mercato rispetto alla competizione sleale di Pechino, dal ripensamento dei nostri sistemi produttivi e di scambio in termini di “friend-shoring” in vista del perseguimento della completa indipendenza dell’Occidente. Niente che possa coesistere con la politica di dialogo e pacificazione auspicata – in maniera anche piuttosto ipocrita – da Pechino.

Fidarsi dei regimi o dialogare con essi non è mai una buona idea e non è mai vantaggioso per le democrazie, che presto o tardi si potrebbero ritrovare a dover combattere gli stessi di cui si sono improvvidamente fidate.


di Gabriele Minotti