Menù africano: colpi di Stato, attentati jihadisti e migrazione

giovedì 27 ottobre 2022


In Burkina Faso, venerdì 21 ottobre, il trentaquattrenne Ibrahim Traoré, autore del golpe che ha rovesciato il 30 settembre un altro golpista, il tenente colonnello Paul-Henri Damiba, ha giurato come presidente della Repubblica. Alla desertica cerimonia non erano presenti né giornalisti né diplomatici ma solo alcuni fidati ospiti. In più occasioni ho affermato che, generalmente, sul Pianeta gli avvicendamenti politici avvengono o per colpi di Stato o per suoi “surrogati”. In Africa, dalla metà del secolo scorso a oggi, si sono celebrati circa duecentoventi colpi di Stato, divisi quasi a metà tra falliti e riusciti. Traoré ha dichiarato che resterà al Governo fino alle elezioni previste per luglio 2024, ma viste le modalità di acquisizione e detenzione del potere, è prevedibile che anche se i burkinabé abitanti del Burkina – potranno votare, non cambierà nulla, a meno che non si celebri un nuovo colpo di Stato.

Tirando un asse immaginario verso la sponda orientale dell’Africa, parallela all’area del Sahel, vediamo che domenica 23 ottobre in un hotel di Kismayo, il gruppo jihadista Al-Shabaab, affiliato ad Al-Qaeda, ha organizzato un attentato nel quale sono stati uccisi nove civili e cinquantuno persone sono state ferite. Kismayo è una città portuale situata a circa cinquecento chilometri a sud di Mogadiscio, nell’hotel era in corso una riunione dei consiglieri della regione autonoma di Jubaland, ex roccaforte di Al-Shabaab. Tra i feriti anche alcuni studenti che stavano uscendo da una scuola limitrofa all’hotel assaltato. L’attacco dei jihadisti Shabaab è durato circa sei ore, come dichiarato da Yusuf Hussein Osman, ministro della Sicurezza di Jubaland, il quale ha tenuto ad assicurare che le forze di sicurezza sono intervenute tempestivamente, evitando una strage maggiore.

Al-Shabaab, quando controllava la città portuale di Kismayo, traeva enormi profitti dalla attività commerciale che si svolgeva nel porto. Poi, nel 2012, l’esercito con il supporto delle forze keniote cacciò i jihadisti dalla città, facendo tornare controllo e gestione sotto lo Stato. A luglio 2019, in un altro attentato di Al-Shabaab, erano morte almeno 26 persone e rimaste ferite oltre cinquanta. La lotta del Governo federale somalo, sostenuto dalla Comunità internazionale contro le milizie jihadiste, è iniziata nel 2007. L’organizzazione islamista fu cacciata dalle principali città somale, compresa la capitale Mogadiscio, che fu liberata nel 2012. Ma tutt’oggi il gruppo Al-Shabaab resta radicato nelle zone rurali e marginali del sud della Somalia, in quei confini che esistono più sulla carta che in realtà.

Da Mogadiscio alla Somalia centrale, come dalla capitale del Burkina Faso, Ouagadougou, a tutta l’area sahariana e saheliana, la pressione jihadista, con le sue articolate espressioni africane, sta aggravando la difficilmente curabile instabilità. Hassan Sheikh Mahmoud, presidente della Somalia dal maggio di questo anno, ha avviato una guerra totale contro le milizie di Al-Shabaab, invitando la popolazione a non recarsi nelle zone controllate dagli islamisti. Inoltre, le milizie dei clan locali e le forze di sicurezza hanno avviato operazioni militari nel centro del Paese, che hanno consentito di recuperare aree sotto controllo degli islamisti. Anche l’esercito statunitense, che opera nella zona, ha effettuato attacchi aerei. Durante uno di questi raid, andati in scena agli inizi di ottobre, ha eliminato Abdullahi Yare, uno dei leader più anziani e co-fondatore del movimento Shabaab nel sud della Somalia.

L’Africa sahariana e subsahariana è afflitta da penetranti azioni terroristiche di stampo jihadista facenti capo al gruppo dello Stato islamico nel grande Sahara e a suoi satelliti fantasiosamente nominati. Dopo il fallimento delle operazioni anti-jihadiste francesi, come l’operazione Barkhane che ha interessato in particolare il Mali ma in generale gli Stati del Sahel e Sahara, sembra che i governi africani, anche quelli golpisti, supportati dai mercenari russi Wagner, riescano a fronteggiare meglio queste azioni dei terroristi islamici. Il risultato prodotto da questo cronico “asse di criticità centro nord africano” favorisce un crescente flusso migratorio, che si proietta verso il Nord Africa per estendersi, poi, sulle coste italiane e spagnole. Così questa vasta regione africana, che versa in condizioni socio-economiche disastrose, sta riportando l’Italia al centro della geopolitica migratoria del Mediterraneo. Dal gennaio di questanno il cinquantasei per cento della migrazione africana ha interessato le coste italiane, soppiantando la Spagna che, esposta alle pressioni del Marocco, nel 2020 aveva avuto questa triste percentuale più alta. L’Italia, nel 2019, tramite “accordi molto riservati” conclusi ufficialmente con le autorità della Tripolitania, sponda privilegiata per la migrazione verso le coste italiane, riuscì ad arginare notevolmente i flussi di migranti. L’Europa aveva anche svincolato fondi e consegnato mezzi alla Guardia costiera libica, al fine di consentire loro di intercettare queste partenze, anche a costo di incorrere, come denunciato da alcune Ong, in violazioni dei diritti umani. Un fattore di sensibilità relativa a seconda di chi li rivendica e degli interessi connessi.

Tuttavia, nella persistenza del caos istituzionale e della miope politica migratoria, in quello che definii “il collo di bottiglia africano”, la Libia ha corroso le serrature di contenimento. Intanto l’Africa “bolle” e l’Europa brucia.


di Fabio Marco Fabbri