Iran: la “rivolta dei veli” e le crepe del regime

lunedì 24 ottobre 2022


Siamo giunti ormai alla sesta settimana dall’inizio delle rivolte in Iran. Le proteste si stanno diffondendo in tutto il Paese, ma non sembra che il regime degli Ayatollah mostri dei segni di apertura alle richieste della piazza. Nonostante le centinaia di vittime e le migliaia di arresti, la “rivolta dei veli” non è assolutamente vinta.

Prima di questi ultimi eventi, ogni manifestazione anti-regime e ogni “libero pensiero” sono stati domati dagli effetti di una feroce repressione. Tuttavia, la morte di Mahsa Amini, uccisa dalla polizia morale, ha aperto dei varchi di rivolta all’interno della società iraniana, finora mai registrati. Adesso, un’intera generazione di iraniani, nati sotto il regime delle sanzioni e drogati dagli slogan vuoti e dogmatici della Rivoluzione islamica, si sta trasformando in un torrente di rabbia che non si ferma ma che, allo stesso tempo, ancora non travolge. Queste proteste si sono riversate sui bazar e sulle università, sulle carceri e sui luoghi di aggregazione. Ora stanno bussando anche alle porte della strategica industria petrolifera, un settore che aveva consentito il rovesciamento del regno dello Scià Reza Pahlavi.

Ma la perdita di legittimità del regime è ormai conclamata. Per compensarla e quindi mantenerla, il Governo iraniano ha attivato tre sistemi di contrasto: il primo è la cosiddetta dottrina Soleimani – noto comandante del movimento al-Quds annichilito da un drone statunitense nel 2020 – che consiste nella “costrizione a porte chiuse”, cioè l’oscuramento di Internet e dei social network, con lo scopo di non fare diffondere le notizie delle proteste e inibire le strumentalizzazioni dall’estero. La seconda è un’azione di denuncia dell’eterno complotto e della minaccia imminente, un diversivo per addebitare le colpe del caos agli oppositori pagati dal “grande Satana Usa” e dai sionisti. Il Kurdistan iracheno, soggetto ad attacchi continui dei droni iraniani e dei missili, è considerato la base di queste opposizioni. Il terzo sistema di contrasto è il tentativo di allentamento delle sanzioni, ricercando accordi come quello del 2015, ma dei tre è sicuramente il più complesso da realizzare.

Comunque, per adesso, il regime non ha dato segni di divisioni interne, né registrato tradimenti, condizioni necessarie per un suo crollo o quantomeno per un suo significativo barcollamento. Un’azione ufficiale di sabotaggio di matrice esterna non pare ipotizzabile né da parte di Israele, né da parte degli Usa. L’anello debole del regime – ma di ogni sistema di Governo – è il logoramento e il fallimento del modello politico, economico e sociale imposto in Patria. E magari seguito dal rigetto dei Paesi che fanno parte, anche se non totalmente, della “mezzaluna sciita”, come Siria, Iraq, Yemen, Libano e Gaza. Ognuna di queste realtà ha dei contrasti interconfessionali. Inoltre, in Yemen la situazione sociale è tra le più drammatiche del pianeta. Ovunque la povertà, l’insicurezza e la tendenza all’emigrazione sono accompagnate dalla disperazione. Ci sono sicuramente dei fattori che stanno aggravando la stabilità del regime, tra questi i fondi iraniani bloccati dalle sanzioni statunitensi in varie realtà dell’Asia, come la complessa situazione politica in Iraq dove la maggioranza sciita ha votato contro le indicazioni di Teheran alle elezioni amministrative del 2021. Di conseguenza, il regime iraniano ha favorito il blocco politico fino a pochi giorni fa, quando il presidente iracheno di espressione curda ha incaricato lo sciita Mohammed Chia al-Soudani di formare il Governo.

Lo stesso vale per il Libano. L’alleanza filo-iraniana ha perso la maggioranza parlamentare nel 2022. Ora, con l’accordo marittimo tra Israele e Libano, con l’avallo del partito Hezbollah, gruppo islamista sciita, che ha agito in violazione della propria ideologia e della propria dottrina relativa all’entità sionista, il distacco da Teheran si è accentuato. Le fondamenta del regime iraniano sono minate da varie cause, tra queste anche la richiesta iraniana di rompere il monopolio sunnita nella gestione della Mecca. Tale pretesa potrebbe destabilizzare il regno Saudita, dato che la minoranza sciita vive nei principali giacimenti petroliferi della Penisola araba. Inoltre, la questione nucleare iraniana e la sua corsa “all’accaparramento” dell’uranio, nonostante i sabotaggi del Mossad e della Cia, al momento fa eco con la minaccia nucleare di Vladimir Putin e con la fornitura delle armi di Teheran a Mosca. La normalizzazione dei rapporti tra Washington e Teheran, ricercata da Barack Obama con lo scopo anche di creare un “rilassamento sociale” per un miglioramento delle condizioni di vita degli iraniani, è completamente fallita. Miliardi di dollari di “pedaggio”, dati agli ayatollah dopo la firma dell’utopico accordo sul nucleare nel 2015, sono stati utilizzati da Teheran per rafforzare le capacità militari della Guardie rivoluzionarie e delle milizie regionali.

È evidente che qualsiasi “cura messianica” verso il regime iraniano non potrà mai cambiare il “dna ideologico”. Così anche il progetto dell’ottantatreenne malato, e guida suprema, Alì Khamenei, di ipotecare la sua successione a favore del figlio, Mojtaba Khamenei, privo di ogni legittimità sia religiosa che politica, pare sia stata respinta dall’Assemblea degli Esperti, in applicazione dell’articolo 111 della Costituzione iraniana. Da ciò possiamo immaginare come la “rivolta dei veli” sia o una irrilevante “questione” o la fatidica goccia.


di Fabio Marco Fabbri