La lotta per i diritti: social vs realtà

martedì 18 ottobre 2022


Domenica 16 ottobre l’atleta iraniana Elnaz Rekabi, classe 1989, ha gareggiato senza velo ai campionati asiatici della Federazione Internazionale dell’arrampicata sportiva in Corea del Sud. Un gesto a dir poco clamoroso dato che Repubblica Islamica impone l’uso dello hijab a tutte le femmine a partire dai sette anni, incluse alle sportive che gareggiano all’estero. Un gesto carico di significato, considerato che in Iran la lotta per i diritti non si ferma: dal 16 settembre, giorno dell’uccisione della giovane curda Mahsa Amini, sono morte almeno 201 persone, inclusi 23 minori (secondo i dati dell’organizzazione non governativa Iran Human Rights, con sede a Oslo). Il canale di notizie con base a Londra Iran International English ha commentato così la presa di posizione della giovane Rekabi: “Con una mossa storica, l’atleta iraniana Elnaz Rekabi, che ha rappresentato l’Iran alle finali delle competizioni di arrampicata asiatiche a Seoul, ha gareggiato senza hijab, disobbedendo alle restrizioni della Repubblica islamica per le atlete”. Infatti le immagini della sportiva hanno fatto il giro del mondo in pochissimo tempo.

Stamattina è arrivata la drammatica notizia che Elnaz Rekabi, ripartita da Seul, sarà trasferita direttamente nella prigione di Evin, a Teheran. Lo ha rilevato “IranWire”, il sito di giornalisti dissidenti iraniani, secondo cui l’atleta sarebbe stata ingannata dal capo della sua federazione sportiva dopo aver ricevuto ordini in merito dal presidente del Comitato olimpico iraniano Mohammad Khosravivafa. Khosravivafa, a sua volta, avrebbe agito su input del Corpo delle Guardie Rivoluzionarie iraniane.

Sempre secondo una fonte di “IranWire”: “Elnaz aveva deciso di apparire senza l’hijab circa un mese fa e sapeva che avrebbe gareggiato senza l’hijab obbligatorio”, aggiungendo che la donna non ha chiesto asilo “perché suo marito è in Iran e voleva tornare dopo la competizione. Prende sempre decisioni così audaci”. Il capo della Federazione di arrampicata iraniana Reza Zarei, che in precedenza era un membro del Ministero dell’Informazione, avrebbe promesso a Elnaz che se le avesse consegnato il passaporto e il cellulare, l’avrebbe portata in Iran rapidamente, senza rischi e senza renderlo pubblico. Ma, spiega sempre una fonte di IranWire, “sappiamo cosa fanno le ambasciate della Repubblica islamica. La porteranno direttamente all’aeroporto e da lì in Iran”.

L’ambasciata iraniana ha confermato che Rekabi ha lasciato stamani Seul insieme alla sua squadra. La Bbc intanto ha contattato il Garden Seul Hotel, dove alloggiava il team iraniano, che avrebbe lasciato l’hotel ieri mattina diretto in Iran, anche se era previsto che la squadra rientrasse nel Paese domani. 

Al netto di tutta la teorica solidarietà sui social, inondata di immagini di donne occidentali che si danno una spuntantina fai dai te ai capelli, è bene ricordare che ogni battaglia per l’affermazione di un diritto passa per sacrifici personali e non per immagini apparentemente accattivanti. Dietro ogni lotta per un diritto c’è un ideale, più grande di qualsiasi convenienza. Più profondo di qualsiasi risultato di comodo ed immediato. È facile essere solidali quando si è protette dalle leggi del tanto vituperato Occidente. Ma quante/quanti avrebbero il coraggio di esprimere ad alta voce la propria opinione sapendo di rischiare la propria libertà, se non addirittura la propria vita?

Sì, è bene ricordarlo e non confondere mai il piano mediatico con la vita reale. Perché, a oggi, la legge islamica prevede ancora, oltre all’obbligo del velo sempre e comunque, anche punizioni corporee inflitte a frustate. E le persone, tutte, continuano a morire per lottare in nome della propria dignità: condizione necessaria di partenza per poter assaporare anche un minimo di libertà.


di Claudia Diaconale