Israele: perché un accordo con il Libano?

lunedì 17 ottobre 2022


La complessa politica estera israeliana, nel quadro del “formale boicottaggio” esercitato da molti Paesi arabi, le cui fila si stanno assottigliando sotto la strategica “normalizzazione dei rapporti”, sta avendo risultati eccellenti. Recentemente, la “normalizzazione dei rapporti” di Israele con Bahrein, Emirati Arabi Uniti e Marocco ha fluidificato un sistema di dinamiche politico-economiche, che hanno favorito la consapevolezza, tra molti Stati della Lega Araba, dell’utilità di un legame costruttivo con Gerusalemme, formale o informale che sia. Per esempio, è noto che l’asse geostrategico tra la capitale israeliana e Washington, che ha aggregato Abu Dhabi, Riyadh e Manama, ha creato una convergenza geopolitica in opposizione a Teheran. Fattore, questo, che definisce un assetto politico ed economico che implica una vasta area d’interessi. I Paesi del Golfo, oramai consci dello sbilanciamento dell’area verso Israele, attenuano anche le politiche di sostegno economico e politico verso la “causa palestinese”.

In questo quadro, con “tendenze” stabilizzatrici che caratterizzano l’area del Vicino Oriente e che contrastano con ciò che sta accadendo “nell’Europa orientale”, Israele e Libano – con la mediazione di Washington e Parigi – hanno tracciato la delimitazione degli spazi marini del Mediterraneo orientale, determinando le rispettive zone di controllo, che ricordo sono ricche di giacimenti di gas. Questa bozza d’accordo è stata guidata dal mediatore statunitense Amos Hochstein, di origine israeliane, il quale – oltre a essere un diplomatico e uomo di affari, anche in Ucraina – è altresì il coordinatore internazionale per gli affari energetici degli Usa. Tuttavia, Israele e Libano restano in uno stato di tensione che, spesso, è sfociato in azioni di guerra. Eppure, l’accordo dell’11 ottobre è stato accolto da entrambe le parti con grande soddisfazione. Così, il presidente libanese, Michel Aoun, con pacata soddisfazione ha commentato il successo ottenuto con l’approvazione del testo, sottolineando che sono state accolte le richieste libanesi sui diritti di sfruttamento dei giacimenti degli idrocarburi e su altre risorse marine, sperando in una veloce formalizzazione di quanto stabilito. Da parte sua Israele, per voce del capo del Governo, Yair Lapid, ha esaltato “l’accordo storico”, che garantisce una maggiore sicurezza allo Stato ebraico, una stabilità del confine settentrionale e anche importanti introiti, valutati da Israele in oltre tre miliardi di dollari.

Seppur circoscritto all’area marittima, il testo rappresenta un punto di inizio nei rapporti tra Libano e Israele. Così le riserve di Cana, situate all’estremo nord-est, sono state assegnate al Libano, mentre il giacimento offshore di Karish va sotto il controllo di Israele. Il vicepresidente del Parlamento di Beirut e influente negoziatore, Elias Bou Saab, ha affermato che questo accordo porterà beneficio a entrambi gli Stati e sarà una base di dialogo anche per i confini terrestri ancora contesi. Israele ha la consapevolezza che un Libano in bancarotta non giova alla sua sicurezza e negherebbe la possibilità di scambi utili in ogni settore. Inoltre, una sua autonomia energetica, magari proiettata verso il business, oltre a compensare le speculazioni sul prezzo degli idrocarburi causati dalla crisi ucraina, allontanerebbe Beirut da Teheran.

Ma perché il partito sciita libanese degli Hezbollah, acerrimo nemico di Israele, non si è opposto a questo accordo? Il suo rappresentante, il segretario generale Hassan Nasrallah, avrebbe potuto minare i negoziati pretendendo vantaggi inaccettabili per Israele. Poteva agire con atti terroristici, che avrebbero impantanato i negoziati. Avrebbe potuto chiedere il rispetto della “linea 29” come confine marittimo con Israele, che non sarebbe stato accettato dai negoziatori israeliani. Ma non lo ha fatto. Ed è proprio sull’atteggiamento del partito Hezbollah che si è creata una disputa tra il primo ministro Lapid, al potere da questa estate e il suo predecessore, Benjamin Netanyahu. Esiste, quindi, anche un sub-scenario in questo articolato accordo. Sul palcoscenico si pone il leader del partito sciita Hezbollah, Nasrallah, che – ufficialmente – non può manifestare ai suoi sostenitori una palese approvazione della conclusione di un accordo con il “nemico sionista”. E dall’altra c’è Netanyahu, che giudica l’accordo “una capitolazione storica”, inaccettabile per un Paese come Israele dove, il primo novembre, si terranno le elezioni legislative. Netanyahu ha affermato che, se vincerà le elezioni, tumulerà l’accordo, considerato un incoraggiamento per il partito sciita libanese Hezbollah a essere più aggressivo e pretenzioso.

Basterà il business, frutto dello sfruttamento della spartizione delle risorse di gas dei giacimenti di Cana e Karish, a rinnegare, in caso di vittoria del partito di Netanyahu, questo ardito accordo? Ma se e è vero che ogni Stato ha la politica estera che si merita, e che ogni Paese ha la politica estera alla quale è condannato, quale sarà il merito o la condanna per queste audaci diplomazie?


di Fabio Marco Fabbri