giovedì 6 ottobre 2022
L’Afghanistan post agosto 2021, data della fuga ignobile dal Paese degli Stati Uniti e degli alleati, è un concentrato di odio misogino, di violenza verso le donne e le adolescenti, di lotta all’acculturamento, di persecuzione verso gli afghani che hanno rivestito ruoli pubblici durante i “venti anni di pausa” dai Talebani. Tutto è corroborato da una devastante incertezza globale, sia per chi subisce sia per chi cerca di dominare.
L’attentato di venerdì 30 settembre a Kabul da parte di un kamikaze che si è fatto saltare in aria innescando una cintura esplosiva, ha causato il decesso di trentacinque persone e il ferimento di almeno ottantadue individui. La fonte, dato che l’informazione talebana è quasi assente o irrealistica, proviene dalla Missione di assistenza delle Nazioni Unite in Afghanistan, (Manua). L’atto terroristico è avvenuto in un centro di istruzione superiore, il Kaaj Higher Education Center, una scuola privata che si stava organizzando per preparare gli studenti agli esami di ammissione all’Università e che è una delle poche strutture a ospitare, ancora, ragazze e ragazzi che studiano in aule comuni. Questo istituto è nel cuore del distretto di Dasht-e-Barchi, nella parte occidentale di Kabul, dove la popolazione è quasi totalmente di etnia Hazara: una minoranza sciita sotto pressione e, da secoli, perseguitata. L’attentato è l’ennesima dimostrazione della precarietà di un Paese dove il Governo dei talebani sopravvive, esclusivamente, per l’indifferenza internazionale. Infatti, anche se ufficialmente la guerra di riconquista talebana è terminata il 15 agosto 2021, in realtà in questo Paese martoriato non passa settimana senza che la popolazione civile subisca atti di violenza.
Una domanda potrebbe essere: perché avvengono questi attacchi terroristici in Afghanistan, dove comanda un gruppo etnico che ha fatto del terrorismo la sua arma di conquista? La risposta potrebbe essere nella peculiarità “sociale” dell’obiettivo e nella localizzazione dell’attentato. Anche se l’attacco non è stato ancora rivendicato, le autorità afghane e alcuni informatori stranieri ritengono che l’attentatore appartenga al gruppo dello Stato islamico del Khorasan, Is-K, ramo regionale dell’Isis, che ha colpito l’area sciita di Kabul, dove appunto abitano gli Hazara. Ma la fonte di ispirazione principale dell’atto terroristico è stata la presenza nell’istituto Kaaj Higher Education Center di classi di studenti misti, dove le ragazze presenti godevano ancora del gusto di acculturarsi: un’eresia, sia per i jihadisti dell’Is-K che per i talebani.
Abdul Nafi Takor, portavoce del ministero dell’Interno talebano, ha dichiarato che un sospetto collaboratore del kamikaze è stato arrestato. Ma non ci sono dubbi sul fatto che gli arresti in Afghanistan non avvengano tramite indagini e prove concrete. Infatti, in passato, dichiarazioni simili non avevano portato ad alcun risultato tangibile. Fonti interne all’istituto scolastico hanno dichiarato che l’attentatore ha finto di essere uno studente che doveva sostenere un esame.
La dinamica dell’attentato stragista, come divulgata, sarebbe la seguente: dopo che le studentesse e gli studenti hanno fatto ingresso nella scuola, il kamikaze è entrato, uccidendo le due guardie addette al controllo. Successivamente, è entrato nel grande anfiteatro della scuola, dove diverse centinaia di alunni stavano studiando. Lì, l’attentatore suicida si è fatto esplodere ai piedi del palco, davanti agli scranni occupati dalle ragazze. Ecco perché la maggioranza delle vittime è rappresentata da studentesse. I ragazzi sono stati meno colpiti, poiché erano seduti nelle file superiori della classe. Subito i media locali hanno mostrato le immagini di famiglie disperate che cercavano i propri figli, sperando di trovarli almeno negli ospedali. Poi gli elenchi degli studenti morti o feriti sono stati affissi all'ingresso delle strutture sanitarie.
La violenza esplode, con meno deflagrazione, ma con la stessa intensità, anche e soprattutto tra le mura domestiche. Come il caso di Elaha Dilawarzai, una ragazza afghana ex studentessa di Medicina, figlia di un funzionario di Stato del periodo precedente al 15 agosto 2021. In un video drammatico – pubblicato il 30 agosto – racconta, con un urlo soffocato, di essere stata costretta a sposare un talebano e che la forzatura matrimoniale si sta conclamando con violenze sessuali e psicologiche continue da parte dell’aguzzino coniuge. Elaha Dilawarzai ha dichiarato: “Dopo aver pubblicato questo video, è possibile che nessuno mi veda più. Potrei morire, ma è meglio morire una volta che morire mille volte”. Il riferimento alle “mille morti” è relativo alle continue violenze sessuali e psichiche subite.
L’urlo soffocato di Elaha su Internet, come quello delle sue connazionali, fa eco alle urla delle donne iraniane nelle piazze di Teheran, con la differenza che il grido delle donne afghane è un “dono” lasciato da un cinico Occidente. Già, l’Occidente dei diritti umani.
di Fabio Marco Fabbri