Sudan: la lotta per la libertà di stampa

lunedì 5 settembre 2022


La professione del giornalista viene rappresentata sotto molti aspetti: si va da coloro che per convenienza diffondono menzogne a favore del potere, a quelli che per la ricerca e la diffusione della verità si giocano la vita. Prevalentemente, negli anni, la comunicazione giornalistica, aiutata anche dalla informazione globalizzata, ha avuto continui “adattamenti funzionali”, che hanno annichilito l’etica professionale ed esaltato l’opportunismo. Percepiamo quotidianamente, anche a livello globale, cosa possa significare “una stampa poco obiettiva!” e spesso asservita al potere, atta a manipolare una parte consistente della massa. Ma la vena etica del giornalista, a volte, è spesso più esaltata dove la libertà è palesemente carente o assente. Vediamo, ad esempio, che in Sudan, un Paese martoriato da decenni da un sistema dittatoriale pesante, è nato un sindacato dei giornalisti che sta combattendo una battaglia sia contro il regime che contro la “stampa di regime”. Infatti, nello Stato sahariano orientale è sbocciato il primo sindacato indipendente di giornalisti, dopo trentatré anni di imbavagliamento della stampa imposto dal dittatore Omar Al-Bashir. Così, il 29 agosto – a Khartoum – i membri del nuovo sindacato hanno formalizzato questa nuova organizzazione con enfasi e speranza. Adesso gli operatori della notizia – i professionisti – esaltano questo grande passo fondamentale per la costruzione di uno Stato civile e magari più libero.

Dal 1989, dopo il colpo di Stato di Omar Al-Bashir, per la prima volta i giornalisti sudanesi hanno un sindacato indipendente per difendere una professione che è stata violentata e repressa sotto l’ex dittatura. E che ora deve fare i conti con il potere militare derivante da un nuovo colpo di Stato. Sabato 27 agosto, il cinquantaseienne Abdel Moneim Abou Idriss, corrispondente a Khartoum dell’Agence France Press (Afp), è stato eletto a capo del sindacato autonomo da 1314 giornalisti sudanesi, sia residenti in Sudan che emigrati all’estero. L’organizzazione consta ora di 39 membri.

Nel 2019 la rivoluzione in Sudan permise la deposizione di Omar Al-Bashir, ma finora non sono riusciti a organizzare quelle che saranno le prime elezioni libere da oltre tre decenni. Mohamed Abdelaziz, membro del nuovo sindacato dei giornalisti sudanesi, ha affermato: “È un grande passo avanti verso la costruzione dello Stato civile e democratico al quale aspirano i sudanesi”. È evidente che dopo tanto tempo, durante il quale i giornalisti liberi non hanno fatto i giornalisti, le menti dovranno essere nuovamente forgiate all’etica del mestiere. Una intera generazione di giornalisti è stata costretta a dimenticare la loro professione per poter sopravvivere a una dittatura che li ha ammutoliti. Ricordo che Al-Bashir, dopo aver deposto Sadeq Al-Mahdi, l’ultimo capo di Governo sudanese democraticamente eletto, aveva sciolto tutte le organizzazioni sindacali, compreso quello dei giornalisti.

Durante la dittatura di Al-Bashir, solo una associazione di giornalisti aveva autorizzazione a esistere ed era quella asservita al Governo, che tutt’oggi continua a diffondere comunicati stampa, l’ultimo dei quali denuncia il nuovo sindacato come “illegittimo”. Durante i tre decenni di dittatura militare-islamica, molti giornalisti furono imprigionati, confiscate redazioni di giornali perché ritenute non allineate con il regime. A fine 2018, il popolo sudanese iniziò a ribellarsi, in nome della libertà, della giustizia e della pace. Il popolo sudanese dopo avere pagato un pedaggio con migliaia di feriti, arresti di massa – tra cui oltre cento giornalisti – e quasi trecento morti, riuscì a deporre Bashir; gli subentrò un Governo civile-militare. Dopo quattro mesi di scontri, e quando i civili arrivarono al potere, la televisione di Stato continuò a occultare le sommosse e le proteste, ma intanto alcuni media privati poterono, dopo tanto silenzio, avventurarsi a trattare di tematiche politiche. Da allora i sudanesi hanno potuto leggere, sui giornali, editoriali critici nei confronti di chi è al potere e al Governo. Ma dopo quasi un anno dall’ultimo colpo di Stato guidato dal generale Abdel Fattah Al-Burhane, capo dell’esercito e adesso uomo solo al comando, quando i militari hanno costretto i giornalisti dei media sudanesi a lasciare i loro uffici disattivando l’intera banda Fm, sono riesumati i timori di una nuova mutilazione della libertà di stampa. L’osservatorio Euro-Mediterranean Human Rights Monitor, abbreviata Euro-Med Monitor, da ottobre 2021 a marzo 2022 ha registrato 55 attacchi – tra arresti, intimidazioni, aggressioni fisiche, incursioni negli uffici delle redazioni – contro giornalisti o media sudanesi. Tuttavia, sotto il ricatto di bloccare ogni tipo di aiuto al Sudan, perché questa è l’arma utilizzata dall’Onu contro Al-Burhane, il golpista di turno ha dovuto ridare voce ad almeno quindici radio precedentemente azzittite dal regime, perché comunicavano libere opinioni.

Una vittoria? No. La partita è ancora lungi dall’essere vinta. Oggi il Sudan è collocato al 151esimo posto su 180 nella accreditata classifica sulla libertà di stampa curata dalla Ong Reporters sans frontières (Rsf). Ma va ricordato che, sempre per la credibile Rsf, l’Italia è collocata al 58esimo posto nella stessa classifica, dietro al Burkina Faso (41esimo) ed il Gambia (51esimo) e davanti al Niger (59esimo). Dati, questi, che potrebbero fare riflettere, soprattutto alla luce degli ultimi anni. Come possiamo notare, oggi il Belpaese della “libertà di stampa” è profondamente in agio nell’area subsahariana!


di Fabio Marco Fabbri