La nostra guerra: sanzioni e parole

giovedì 10 marzo 2022


L’Occidente è ancora capace di fare una guerra? L’isolazionismo americano e la drammatica assenza di una difesa comune nel Vecchio Continente, in più di 70 anni di vita della Comunità europea, non depongono a favore di una risposta armata al prepotente di turno. Avendo noi creato una società prettamente mercatistica crediamo che tutto si possa comprare o scambiare, in cambio di utility e di denaro, per cui anche la guerra stessa non si fa con le armi ma con l’addomesticamento dei flussi finanziari e il dirottamento di beni e servizi, proiettandoli lontano mille miglia dalle regioni del mondo che si intendono isolare e ridurre in miseria, come la Russia putiniana, per le loro palesi violazioni del diritto internazionale. Per capire se il regime di sanzioni messe già in atto, o proposte ai tavoli comuni, possa davvero funzionare per costringere Vladimir Putin a venire a più miti consigli, ritirando dall’Ucraina le sue forze di occupazione, occorre in via preliminare avere un’idea quantitativa e qualitativa dei flussi di export di gas e petrolio, che rappresentano la principale entrata di bilancio della Russia, per un ammontare di 700 milioni di dollari al giorno, con 8 milioni di barili di petrolio immessi quotidianamente sul mercato globale. Di questi ultimi (fonte: Financial Times), il 60 per cento vanno in Europa, il 2 per cento in Inghilterra, l’8 per cento negli Usa e il 20 per cento in Cina. Difficile compensarli innalzando la produzione degli Stati petroliferi del Golfo, dato che Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti hanno già fatto sapere di non essere disponibili a un aumento delle loro quote nell’immediato.

Se Putin ritiene le sanzioni occidentali un “atto di guerra” dichiarato dagli Stati democratici che vi aderiscono, allora vuol dire che le sanzioni stesse hanno di fatto un contenuto esplosivo per quanto riguarda la pace sociale e la sicurezza interna della Russia. Del resto, l’esclusione del circuito bancario russo da gran parte del sistema finanziario globale (non essendo praticabile il suo isolamento totale, dovendo lasciare aperti alcuni conti sull’estero di Gazprom per il pagamento delle forniture energetiche) e l’impossibilità pratica di utilizzare metà delle riserve in valuta estera depositate in banche occidentali, determinano un impatto destabilizzante negli scambi commerciali di Mosca con il resto del mondo. Mai come in questo caso si tende a pilotare strumentalmente dall’esterno un default progressivo della solvibilità dello Stato russo (che ha reagito elevando al 20 per cento il saggio di interesse, con pesanti ricadute sulla capacità di indebitamento di famiglie e imprese), rendendone particolarmente oneroso il finanziamento del debito pubblico nazionale, a causa del crollo del rublo, di cui più nessuno dei fornitori occidentali di beni e servizi accetta il pagamento in sostituzione di dollaro ed euro, vista la sua tendenza a deprezzarsi giorno dopo giorno. C’è il rischio concreto, in questo senso, che sia la Cina a fare “shopping” a prezzi stracciati di società russe quotate, creando così una forte interdipendenza economica tra Mosca e Pechino.

Da qui le impressionanti ripercussioni delle sanzioni sulla decrescita del Pil russo, previsto in caduta libera di ben otto punti (-8 per cento) nel 2022, con a seguire un periodo non breve di stagnazione. Ovviamente, come in ogni regime totalitario che si rispetti, le ricadute negative sulla classe media russa saranno tutte poste a carico dell’Occidente, visto il ferreo controllo mediatico del regime in materia di comunicazione pubblica. Tuttavia, in base a recenti sondaggi, più del 60 per cento dei cittadini russi sosterrebbe le ragioni di Putin e della Russia, nel promuovere l’Operazione speciale per impedire l’accerchiamento di Mosca tramite il Cavallo di Troia dell’Ucraina. E fintanto che il Cerchio magico del Cremlino resterà fedele al suo capo, rimangono scarse le probabilità di una destituzione di Putin, malgrado le perdite militari e l’evidente insuccesso della blitzkrieg. A meno che l’Armata Rossa non incontri notevoli difficoltà ad avanzare sul terreno, nel caso che le grandi città ucraine decidano di resistere a oltranza, costringendo i blindati a muoversi a fatica tra le macerie, e causando di conseguenza perdite rilevanti tra i soldati di Putin, in base a una logica che non ha nulla a che vedere con l’originale missione di peacekeeping, per cui erano state inviate le truppe oltreconfine. In tal caso, la defenestrazione del capo da parte del Deep State russo diverrebbe inevitabile!

Del resto, stime recenti dell’intelligence americana valutano le perdite russe sul campo dai due ai quattromila soldati, in soli quindici giorni di guerra. Il fatto che vengano uccisi in prima linea generali russi è conseguenza diretta dell’esigenza dei comandi militari di dare un forte impulso alle operazioni di terra, e di tenere alto il morale delle truppe di fronte alle evidenti difficoltà logistiche e all’inaspettata resistenza Ucraina. Da questo punto di vista, nell’immediato, ci potrebbero essere una o più intese sul cessate il fuoco (con grande sollievo delle borse che scommettono su una soluzione negoziale!), in modo da riorganizzare le truppe e aggiornare le strategie, in base ai dati acquisiti sul terreno. Tanto più che Mosca non vuole e non può correre il rischio di procedere con bombardamenti a tappeto che, oltre a fare strage di civili innocenti, potrebbero obbligare la comunità internazionale (e la Nato) a intervenire per difendere le comunità assediate. Ovviamente, il colpo di grazia definitivo per Putin verrebbe solo dall’embargo delle forniture energetiche russe all’Occidente, ma qui si procede in ordine sparso.

Infatti, se l’America può benissimo compensare la mancata fornitura di un’aliquota non rilevante delle esportazioni russe di gas e petrolio, che assommano come si è visto all’8 per cento del totale, non funziona così per la Germania. Berlino, infatti, dovrebbe acconsentire a chiudere i rubinetti dello Stream-1, avendo già congelato con grandissima sofferenza l’avvio a regime dello Stream-2, in cui ha enormi interessi economici e geopolitici in gioco (anche se il gasdotto, costato 11 miliardi di dollari, è interamente di proprietà di Gazprom). Con lei è schierata l’Italia, fortemente dipendente dalle forniture di gas che transitano per l’Ucraina in guerra. Kiev, ovviamente, non volendo suicidarsi, evita accuratamente di ventilare la chiusura dei rubinetti delle condotte attraverso cui passa nel suo territorio il gas siberiano, visto che il pagamento dei diritti di attraversamento rappresenta una delle sue principali fonti di reddito in valuta estera. Senza poi considerare il fatto che una simile mossa unilaterale sarebbe a sua volta da intendere come un “atto di guerra” nei confronti dei Paesi europei, che stanno soccorrendo l’Ucraina con aiuti umanitari e forniture di armi.

E poiché, ancora per alcuni anni, non si può fare a meno delle forniture di gas siberiano, in campo esistono proposte drastiche (come quella citata dal Financial Times del professor Ricardo Hausmann, docente di Economia ad Harvard) per tassare fino al 90 per cento le esportazioni energetiche russe, che rendono, come si è detto, 700 milioni di dollari al giorno, consentendo oggi a Putin di coprire i costi della sua campagna militare di occupazione dell’Ucraina. I sovraccosti relativi, vista la scarsa elasticità delle forniture (nel medio periodo, infatti, per Mosca è impraticabile uno switch verso altri mercati energivori, come la Cina, non esistendo pipeline in grado di trasportare le stesse quantità di gas erogate ai consumatori europei!), graverebbero interamente sui produttori, e non sui consumatori europei, contraendo così sensibilmente i margini di profitto delle compagnie russe interessate.

Chi vincerà la guerra? I cannoni o le sanzioni? Comunque sia, finirà presto, speriamo… Nell’era dei social e delle cronache infinite di guerra ogni vittima innocente, come i bambini e le donne indifese, lascia tracce indelebili dei suoi crimini contro l’umanità. Meglio tenerne conto, presidente Vladimir Putin, prima che si apra definitivamente per lei la strada di non ritorno del suicidio di Adolf Hitler nel bunker di Berlino! La minaccia nucleare? Lasciamola marcire per sempre nella cassetta degli attrezzi del Demonio.


di Maurizio Guaitoli