La crisi ai confini dell’Europa

venerdì 7 gennaio 2022


Kazakhstan: è rivolta contro il rincaro energetico, ma non solo

Le agenzie parlano di un Paese in fiamme, con scontri che nelle ultime ore hanno visto decine di decessi e migliaia di feriti tra i manifestanti, ma anche 12 morti e 300 feriti tra le forze di sicurezza. Un poliziotto è stato decapitato dalla folla inferocita. All’origine della protesta c’è stato un improvviso aumento dei prezzi del gas di petrolio liquefatto, il Gpl. Nella regione di Zhanaozen, la maggioranza della popolazione usa veicoli a Gpl, il cui prezzo è stato raddoppiato da 60 a 120 tenge al litro, cioè da 0,12 e 0,24 centesimi di euro. Un raddoppio che pesa significativamente in un Paese con forti diseguaglianze, dove sono in molti a sopravvivere con un reddito mensile non superiore ai 100-150 euro. La protesta è ormai dilagata in tutto il Paese, diventando di fatto una rivolta politica al grido di “Via il vecchio!”, in riferimento all’81enne Nursultan Nazarbajev, amico di Vladimir Putin, il “padre della nazione kazaka”. Pur avendo ceduto nel 2019 la presidenza al delfino Kassym-Jomart Tokajev, Nazarbajev è considerato il vero detentore del potere dietro le quinte, rimanendo leader del partito dominante, Nur Otan, “Patria luminosa”, e capo del potente Consiglio di sicurezza nazionale. Ma un clima di contestazione nel Paese si era già palesato in altre manifestazioni di protesta, che seppure circoscritte evidenziavano la crisi del consenso nei confronti della vecchia leadership filorussa, autocrate e distante dai bisogni della popolazione.

Dietro le parvenze di un Paese stabile, con una economia forte grazie alle risorse energetiche, petrolio e uranio in particolare, si è celata una società caratterizzata da un’elevata corruzione e da fortissime diseguaglianze sociali. Il modello adottato dalla vicina Russia di Putin qui ha rilevato le sue fragilità: la popolazione non considera più accettabile il sacrificio di diritti e libertà in cambio di promesse di stabilità e standard di vita confortevoli, che ora risultano appannaggio solo di ricchi magnati. È un dato da tenere ben presente questa affinità con il modello politico e sociale russo: Mosca ha il timore che la protesta possa diffondersi, con sollevazioni analoghe a quelle accadute in Ucraina e Bielorussia, specie ora che in Russia i prezzi alimentari sono in continuo aumento, l’inflazione supera l’8 per cento, e l’intelligence teme il rigurgito di una contestazione per ora sommersa.

Il presidente Kassym-Jomart Tokajev, in carica dal 2019 con un percorso diplomatico anche alle Nazioni Unite, ha cercato di riprendere il controllo promettendo riforme e facendo dimettere il governo. Ha assegnato l’incarico di premier a un giovane tecnocrate Alikhan Smajlov, estraneo alla vecchia leadership filosovietica. Ha quindi ordinato lo stato di emergenza rilevando anche l’incarico di capo del Consiglio di sicurezza di Nazarbajev. Ma di fronte alla gravità delle proteste, Tokajev non ha potuto fare a meno di consigliarsi con Putin. Subito dopo, la narrazione ufficiale è diventata che gli scontri contro le forze di sicurezza sono fomentati da gruppi terroristi e anche da miliziani afghani, per cui, data la “minaccia terroristica” ad opera di agenti esterni, è stato annunciato l’intervento della Csto, l’organizzazione del trattato di sicurezza collettiva che riunisce in un’alleanza militare Armenia, Bielorussia, Kazakhstan, Kirghizstan, Tajikistan e, ovviamente, la Russia. Lo ha confermato il presidente dell’alleanza, il premier armeno Nikol Pashinyan, il quale ha tenuto a precisare che l’invio “forze di pace collettive” sarà per un “tempo limitato per stabilizzare e normalizzare la situazione nel Paese”, minacciata da “interferenze esterne”. Al Cremlino probabilmente qualcuno starà ricordando che il crollo dell’Unione Sovietica iniziò dalle proteste della Polonia, un Paese ai confini dell’impero, come oggi lo è il Kazakhstan.

(*) Membro dell’International Law Association


di Maurizio Delli Santi (*)