Un modello islandese per arginare le dipendenze fra i più giovani?

martedì 23 novembre 2021


Dati interessanti nella prevenzione delle dipendenze provengono dall’applicazione del metodo islandese Youth in Iceland: venticinque anni fa la metà dei ragazzi fra 15 e 16 anni in Islanda si ubriacava almeno una volta al mese e molti si drogavano. Quando nel 1999 lo European School Survey Project on Alcohol and Other Drugs (Espad) realizzò un sondaggio sul consumo di alcool, sigarette e sostanze illecite da parte delle ragazze e i ragazzi europei, emerse che il 25 per cento degli studenti islandesi fra i 15 e i 16 anni fumava sigarette, il 19 per cento si ubriacava con una certa frequenza e il 16 per cento aveva sperimentato almeno una volta stupefacenti. Non erano numeri catastrofici: erano per lo più in linea con la media europea, talora anche al di sotto. Tuttavia per uno Stato che ha poco più degli abitanti di Bari sparsi su una superficie grande un terzo dell’Italia, in cui chiunque è zio, nipote o biscugino di chiunque altro, anche numeri relativamente bassi possono diventare un problema sociale. Lo Stato islandese decise quindi di dare avvio al progetto “Youth in Iceland”.

L’esperimento si è basato sugli studi dello psicologo statunitense Harvey Milkman, professore alla Metropolitan State University of Denver e all’Università di Reykjavik, che da anni conduceva ricerche approfondite sulle dipendenze. Secondo Milkman le dipendenze avrebbero a che fare con lo stress, l’ansia e la capacità degli individui di gestire correttamente questi due stati d’animo; si tratterebbe di tentativi di adattamento disfunzionali, con sostanze diverse associate a risposte adattive differenti. Gli studi di Milkman si basavano a loro volta sulle ricerche di un altro psicologo, Bruce Alexander, che a partire dagli anni 1970 ha rivoluzionato le opinioni sulle dipendenze, dimostrando che – tanto nei ratti di laboratorio quanto negli esseri umani – le relazioni sociali sono un antidoto efficace o alla dipendenza da sostanze psicotrope, ma anche dal gioco, dalla pornografia e da molto altro. In altre parole, il fenomeno della dipendenza sarebbe generato più dai processi interiori degli individui e dal contesto relazionale in cui sono immersi che dagli agenti chimici delle sostanze.

L’Islanda ha scelto di adottare un modello di prevenzione basato sulla comunità (community-based), che migliorando gli stili di vita e la qualità delle relazioni sociali e familiari riducesse al minimo la possibilità dei più giovani di incappare nell’uso di sostanze psicotrope e – nel caso – di diventarne dipendenti. Il progetto fu avviato nel 1997. Se da un lato vennero prese alcune misure “restrittive”, per arginare il fenomeno, come il divieto di vendita di alcolici e sigarette ai minori – rispettivamente – di 20 e 18 anni, il divieto di pubblicizzare questi prodotti o il “coprifuoco” invernale alle 22 ed estivo alle 24 per i minori di 16 anni, il cuore dell’esperimento risiedeva nei suoi aspetti propositivi. “Youth in Iceland” coinvolse le scuole e i genitori affidando loro un ruolo fondamentale nel percorso preventivo. Le istituzioni scolastiche ricevettero ingenti finanziamenti per svolgere attività sportive e artistiche extracurriculari, mentre le famiglie furono incentivate economicamente per consentire ai figli di svolgere corsi e sport nelle ore pomeridiane. Soprattutto le famiglie a basso reddito ricevettero incentivi per inserire i figli in gruppi sportivi, artistici e culturali, in modo che tutti avessero modo di sentirsi parte di un gruppo e sentirsi bene senza bisogno di fare uso di droghe. I genitori furono anche invitati ad aumentare la quantità di ore spese assieme ai propri figli e migliorarne la qualità. Tutto era teso a rendere le vite degli adolescenti piene e soddisfacenti, contornate di relazioni solide e di fiducia.

I tassi di uso e abuso di sostanze calarono vertiginosamente. Secondo ripetute ricerche sugli studenti, l’abitudine di fumare sigarette è scesa dal 17 per cento del 1997 all’1,6 per cento del 2014 e nella stessa finestra temporale gli episodi di ubriachezza sono calati dal 30 per cento al 3,6 per cento e l’uso di sostanze psicotrope ha avuto una discesa simile. Al contrario, la percentuale di bambini e ragazzi che affermavano di trascorrere buona parte del fine settimana insieme con i genitori è raddoppiata (dal 23 per cento al 46 per cento), al pari della percentuale di chi partecipa ad attività sportive organizzate per almeno quattro volte a settimana (dal 24 per cento al 42 per cento). Sulla base di tali studi, è evidente che la dipendenza da sostanze sia questione così complessa da non essere riducibile a un mero problema sociale o sanitario, ma debba essere necessariamente analizzato sotto una visione ampia, alla luce di quanto proviene da più campi scientifici: dal settore medico a quello politico-sociologico. Il chiarimento dei meccanismi molecolari dietro le dipendenze ha permesso di comprendere meglio le basi eziologiche dell’uso di sostanze quali tabacco, alcool e droghe e può essere un buon punto di partenza, da inserire però in una più estesa valutazione del fenomeno, per aiutare nella pianificazione degli obiettivi di una nuova e più solida politica di prevenzione sanitaria.

Un elemento fondamentale e imprescindibile è la collaborazione tra le diverse Nazioni: lo scambio di protocolli e studi permette di migliorare le pianificazioni in termini di prevenzione e di abbreviare le tempistiche nella messa in atto di politiche sanitarie più efficaci. Nel dicembre 2017, con l’obiettivo di supportare le politiche di contrasto al tabagismo, è stato lanciato ad Atene The Joint Action on Tobacco Control (Jatc), un programma di supporto agli Stati membri per l’attuazione della direttiva sui prodotti contenenti tabacco. Un controllo più capillare delle dipendenze giovanili non può prescindere dal confronto fra Stati e che seria politica di promozione della salute dipende necessariamente dall’aggiornamento del mondo scientifico e sanitario, ma anche da una visione a tutto tondo. L’obiettivo dev’essere quello di non fermarsi solo ad analizzare i risultati provenienti dal mondo accademico, ma di avere la capacità di integrare tali nozioni, fondamentali e imprescindibili, con la creatività che può nascere solo dall’osservazione di ciò che ci circonda senza ideologismi.

(*) Tratto dal Centro studi Rosario Livatino


di Daniele Onori (*)