Sudan: il secondo tempo del golpe

lunedì 15 novembre 2021


Dopo il colpo di Stato in Sudan, celebrato il 25 ottobre, tessuto dal generale Abdel Fattah al-Burhan, che ha deposto e arrestato il primo ministro Abdalla Hamdok, e dopo giorni di tremolante stabilità socio-politica, giovedì 11 novembre il generale golpista ha nominato un nuovo Consiglio di sovranità. Dalla nuova formazione governativa sono stati esclusi i rappresentanti della corrente politica che chiedevano il trasferimento del potere ai civili. Ricordo che dopo il Golpe del 2019, che ha portato alla caduta del dittatore Omar al-Bashir, era stato istituito un Consiglio di sovranità presieduto del generale al-Burhan e composto da civili e militari delegati a sovrintendere alla transizione verso le elezioni. I nominativi del nuovo Consiglio di sovranità sono stati comunicati giovedì dalla principale emittente televisiva sudanese. Il Consiglio conta 14 membri, l’ultimo nominato rappresenta l’Est del Paese, dove i manifestanti hanno bloccato Port Sudan. Dei quattordici membri del nuovo Governo, quattro sono nuovi. Sono stati sostituiti i quattro rappresentanti del Flc, Forces for Freedom and Change, l’unione delle forze civili nata dalla rivolta anti-Bashir, con quattro personalità apparentemente apartitiche.

Secondo quanto riportato dalla televisione di Stato, con il decreto di giovedì sera il generale al-Burhan conferma la sua presidenza nel Consiglio di sovranità, il generale Mohamed Hamdan Dagalo, detto “Hemedti”, a capo delle milizie paramilitari del Rapid Support Forces, già accusato di abusi nella regione del Darfur e durante la repressione della rivolta anti-Bechir, figura come vice del presidente. Altra figura di spicco del Consiglio è Abu al-Qassem Bortoum, uomo d’affari che ha sostenuto la normalizzazione con Israele, imposto da Washington per poter cancellare il Sudan dalla lista nera degli Stati che sostengono il “terrorismo”. Bortoum, 55 anni, era un vice di Omar el-Bechir e ora gestisce aziende agricole e di trasporto. Una donna, Salma al-Mubarak, è un’altra pedina importante del Consiglio di sovranità: appartiene a una nota famiglia sufi del Sudan, non ha un passato politico significativo ed è la seconda donna in Consiglio insieme a Raja Nicola Abdel-Masih, rappresentante della minoranza cristiana copta, che mantiene il suo incarico.

Quanto ai nove membri che restano nel Consiglio di sovranità, si tratta di rappresentanti dell’esercito o di gruppi armati ribelli che hanno firmato la pace con Khartoum alla fine del 2020, dopo anni di conflitti mortali consumati su tutto il territorio sudanese: il generale Shams-Eddin Kabbashi Ibrahim, il tenente generale Yasir Abdel-Rahman Hassan Al-Atta, il tenente generale Ibrahim Jabir Ibrahim, Malik Agar Eyre, Al-Hadi Idriss Yahya, Al- Tahir Abu-Bakr Hajar, Yusuf Gad-Karim Mohamed Ali, Abul-Gassim Mohamed Mohamed Ahmed, Abdel-Bagi Abdel-Gadir Al-Zubair.

Tuttavia, nonostante l’apparente riorganizzazione della compagine governativa sudanese, attenta alla presenza delle donne e alla rappresentanza religiosa, giovedì sera il portavoce delle Nazioni Unite, Stéphane Dujarric, ha dichiarato, durante il suo quotidiano briefing con la stampa, che questi sviluppi sono “molto preoccupanti”, aggiungendo “vogliamo vedere la ripresa della transizione il prima possibile” e “il rilascio del primo ministro Hamdok, come quello di altri politici e leader che sono stati arrestati”. Inoltre, va sottolineato che il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite giovedì stesso si è riunito a porte chiuse, anticipando l’incontro sulla “questione” Sudan, che era programmato per la settimana corrente. Non è uscita nessuna dichiarazione congiunta, ma ha riferito un diplomatico che ha mantenuto l’anonimato, che durante l’incontro Mosca ha continuato a sostenere il generale al-Burhan, sottolineando che quest’ultimo era essenziale per garantire la stabilità del Paese.

L’ambasciatore britannico alle Nazioni Unite, Barbara Woodward, al termine dell’incontro di giovedì ha dichiarato: “Rimaniamo seriamente preoccupati per le notizie di ulteriori azioni militari unilaterali che vanno contro lo spirito e la lettera della dichiarazione costituzionale”. Mentre l’inviato delle Nazioni Unite, Volker Perthes, ha fermamente dichiarato al Consiglio che “la finestra si sta chiudendo per il dialogo e una risoluzione pacifica della crisi”.

Già martedì scorso Norvegia, Gran Bretagna e Stati Uniti avevano invitato il generale al-Burhan a non prendere una decisione unilaterale, esortandolo anche a reintegrare, nei propri ranghi, l’ex primo ministro Hamdok. Giovedì gli ambasciatori europei hanno incontrato il deposto ministro degli Esteri, Mariam Al-Sadiq al-Mahdi, condividendo la necessità di un ritorno all’ordine costituzionale e il rilascio dei ministri, dei manifestanti, degli attivisti e persino dei passanti, arrestati nelle scorse settimane. Arresti di massa che non hanno minato la determinazione dei sostenitori di un trasferimento di potere alla popolazione civile. Intanto le proteste continuano come quella oceanica di sabato 13 novembre. Un giorno di prova per i manifestanti che sostengono il ritorno del potere civile e per i generali golpisti al potere. Sabato le forze di sicurezza hanno sparato proiettili veri e usato bombole di gas lacrimogeno contro decine di migliaia di golpisti, che marciavano per Khartoum e per i suoi sobborghi. La polizia nega di aver aperto il fuoco sui manifestanti, piuttosto, come comunicato dalla tv nazionale, anche quella sotto controllo del potere, ha dichiarato che sono rimasti feriti gravemente 39 agenti.

L’Occidente chiede un “ritorno all’ordine costituzionale”, ma le operazioni diplomatiche in Sudan sono accese, come la miccia di una possibile guerra, tenendo conto anche che in questo palcoscenico incombe l’ombra gettata dalla diga Gerd, Grand Ethiopian Renaissance Dam, che l’Etiopia sta costruendo al confine con il Sudan e che è focolaio di una grave crisi con l’Egitto, dove anche il Sudan è attore protagonista.


di Fabio Marco Fabbri