Sudan: la controffensiva del popolo

giovedì 4 novembre 2021


Dopo il colpo di Stato del 25 ottobre ordito dal generale Abdel Fattah Abdel Rahman Al-Bourhane, il popolo sudanese ha reagito andando nelle vie di Khartoum per rivendicare la “loro democrazia”. Vedendo alcuni canali televisivi che riescono a trasmettere la realtà, oggi cosa rara in Occidente, il 30 ottobre sulle vie principali della capitale, durante le proteste, echeggiava un canto, una sfida che così risuonava: “Puoi bloccare le strade e chiudere i ponti, oh Bourhane, verremo noi da te”.

Sotto la spinta dei Comitati di resistenza e delle organizzazioni della società civile, organismi artefici della rivolta del 2019, centinaia di migliaia di sudanesi hanno così marciato pacificamente in tutto il Paese, dimostrando la loro instancabile lotta contro il colpo di Stato (annunciato!) del generale Al-Bourhane. Ricordo che il “putsch” ha portato allo scioglimento del Governo e all’arresto di quasi tutti i rappresentanti civili e militari, che avrebbero dovuto garantire un passaggio “democratico” del potere, in attesa delle elezioni del 2023. Molti sudanesi vedono una certa similitudine operativa nella lettura del percorso golpista di Al-Bourhane, con la “strategia” con cui il presidente egiziano Abdel Fattah Al-Sisi ha raggiunto il potere; opinione con cui discordo, data l’abissale differenza della congiuntura politica. Tuttavia, è oggi sempre più credibile la non estraneità di Al-Sisi con la costruzione del colpo di Stato in Sudan.

Come reazione alla protesta e al fine di evitare che i vari cortei si unissero, le autorità hanno bloccato l’accesso ai ponti che collegano Khartoum alle città di Omdurman e Bahri, attraverso il Nilo Azzurro e il Nilo Bianco. Le barricate edificate da Khartoum, soprattutto con filo spinato, hanno ostacolato anche il traffico verso l’aeroporto. I manifestanti, con lo spettro del ricordo dei quasi trent’anni di dittatura del deposto despota Omar Al-Bashir, stanno subendo, da circa otto giorni, il classico “Stato di emergenza”, ben noto in Italia anche se con alcuni effetti diversi. Arresti, repressioni, alcuni morti non hanno impedito alla “voce sudanese” di gridare: “Il popolo è più forte e fare marcia indietro è impossibile!”. Queste critiche, diffuse in circa quaranta città del Paese, chiedono la caduta della giunta militare e il rilascio di Abdalla Hamdok, il primo ministro destituito e agli arresti domiciliari. La repressione dei golpisti non si è fatta attendere: soldati dell’esercito regolare, agenti di polizia e miliziani delle Forze di supporto rapido, armati con Kalashnikov e attrezzati con pick-up armati, anche con mitragliatrice Douchka, hanno aggredito la folla sparando contro i manifestanti e utilizzando gas lacrimogeni. Almeno cinque dimostranti hanno perso la vita a Omdurman.

Difronte alla sede vuota del Parlamento si sono verificati altri ferimenti, tanto che in poche ore gli ospedali di questo quartiere, storicamente anti-establishment, come l’ospedale Al-Arbaeen, hanno annunciato di non poter più ricevere pazienti. Nel quartiere Burri, ad Est di Khartoum, i miliziani delle Rapid Support Forces hanno preso d’assalto l’ospedale Royal Care, dove si erano rifugiati i manifestanti. Nonostante il tentativo di completa censura dei golpisti, queste realtà repressive sono tuttavia state diffuse dai social media nella città di Zalenji, nel Darfur, nella capitale dello Stato di Al-Jazeera, Wad Madani, come sui canali televisivi di Gedaref nell’Est del Paese.

Comunque, tali azioni repressive che dall’inizio del colpo di Stato hanno fatto circa quindici vittime tra i manifestanti, non sembrano creare la “stabilità da Golpe”; infatti dal retroscena dei fatti, pare che Abdel Fattah al-Bourhane non goda di grandi prospettive. Il generale golpista appare indebolito anche a causa dell’intensa pressione diplomatica, soprattutto delle Nazioni Unite e dell’Unione Africana, nonostante che al-Bourhane cerchi senza successo di tenere consultazioni per trovare un nuovo primo ministro. A oggi nessun candidato ha voluto affrontare l’idea di combattere contro “l’ira delle strade”. Il capo dell’esercito ha detto che il posto era ancora libero per Abdalla Hamdok, ma quest’ultimo ha categoricamente declinato la proposta, per il momento.

I manifestanti rifiutano perentoriamente un possibile ritorno allo status quo che prevaleva prima del golpe. Chiedono l’istituzione di un Governo completamente civile affermando che i militari, che hanno guidato la prima metà della transizione, non sono riusciti a onorare i loro impegni, arraffando solo branche di potere. La voce è che “non ci saranno trattative con loro”. La società sudanese sta dimostrando che il sacrificio della vita e le sofferenze per raggiungere la libertà e una ipotesi di democrazia, come accaduto anche in Italia prima del 1945, sono un pedaggio da pagare per se stessi e per il futuro; sentimenti e convinzioni altrove ormai dissolti.


di Fabio Marco Fabbri