venerdì 29 ottobre 2021
Il presidente americano Joe Biden è uno di quei personaggi politici contornati da un certo grigiore (l’età anagrafica non c’entra, bensì incide la natura della persona) dai quali non ci si aspetta posizioni nette o eclatanti. Rappresenta inoltre il ritorno, più o meno celato, della dottrina di Barack Obama, del quale fu peraltro il vice per otto anni. L’America è tornata a essere un po’ più arrendevole in alcuni casi e assai pasticciona in altri, proprio come accadeva ai tempi di Obama. Una grande potenza che si ritira dai fronti caldi del mondo in modi e tempi inopportuni e, talvolta, lascia nei guai i propri alleati locali. Il disastro afghano non è tanto diverso dalla ritirata frettolosa dall’Iraq di Barack Obama che, non dimentichiamolo, consentì la nascita dell’Isis e la ripresa dei bagni di sangue a opera dei terroristi islamici. Biden persegue, poi, il compimento dell’agenda progressista mondiale, che mette al primo posto temi come il discutibile surriscaldamento climatico o l’altrettanto opinabile questione gender, a scapito di tante altre urgenze del pianeta. Per notare tutto ciò non serve essere repubblicani, conservatori e magari nostalgici di Donald Trump.
Tuttavia, ferme restando tutte le riserve nei confronti di questo presidente, entrato peraltro nello Studio Ovale mediante elezioni, diciamo così, non del tutto serene, almeno per quanto riguarda la difesa di Taiwan dalle preoccupanti mire della Cina comunista, Joe Biden riporta l’America al ruolo che le compete. Il regime di Pechino non è più soltanto, da alcuni anni ormai, un concorrente sleale nella giungla della globalizzazione economica, ma diventa un competitor sempre più minaccioso e aggressivo a livello militare. Non si accontenta più di copiare le Rolls-Royce e le Ferrari, bensì, oltre a espandere la propria influenza anche politico-ideologica nel mondo, cerca di riprendersi, soprattutto con le cattive, ciò che ha la medesima radice cinese, ma non risponde più o vuole rispondere solo in parte agli ordini della Repubblica popolare. La speciale autonomia di cui godeva Hong Kong è stata quasi completamente annichilita dagli arresti degli oppositori e dalla imposizione di leggi liberticide, ma a Xi Jinping questo non basta ed ecco che aumenta di giorno in giorno, in modo più che inquietante, la pressione su Taiwan.
L’isola, come si sa, è di fatto una nazione sovrana e indipendente, anche se Pechino l’ha sempre ritenuta a livello ufficiale come una provincia ribelle da riannettere prima o poi. Fino a pochi anni fa quelle del regime comunista erano più che altro parole, ma in fondo lo status-quo di un territorio come quello taiwanese, indipendente de facto, veniva tollerato più o meno controvoglia dalla Cina continentale. Oggi però vi sono le incursioni aeree dei caccia cinesi e la musica è cambiata di molto. Joe Biden, rispondendo a una domanda sulla questione taiwanese, è stato molto chiaro e netto sul dovere degli Stati Uniti di difendere, anche militarmente e senza esitazioni, Taiwan. La stessa presidente della Repubblica di Cina (non scordiamo la vera denominazione di Taiwan), Tsai Ing-wen, si è detta sicura dell’aiuto americano in caso di aggressione militare da parte della dittatura comunista e ha lasciato intendere che vi sia già la presenza di truppe Usa sul suolo dell’isola.
La determinazione di Biden è sacrosanta, perché ulteriori mosse violente e provocazioni del Dragone diverrebbero totalmente inaccettabili. Già il soffocamento delle legittime aspirazioni di Hong Kong rappresenta un pugno nello stomaco per chi crede nella libertà, ma una eventuale capitolazione di Taiwan significherebbe una sconfitta epocale per l’America e tutto il mondo libero. La sicurezza di Taipei deve essere nell’agenda politica non solo del presidente americano, bensì di tutti i governi e di tutte le Cancellerie europee, perché la Cina insulare, a differenza di quella continentale, preferisce la democrazia al partito unico. Se per Pechino non esistono compromessi circa la questione taiwanese, come è stato dichiarato dai portavoce del regime, nessun tipo di arrangiamento deve esistere nemmeno per le democrazie del globo.
di Roberto Penna