Chi governerà la Germania per i prossimi anni?

martedì 28 settembre 2021


Dalle elezioni politiche di domenica in Germania, il Paese è uscito ancor più diviso – almeno politicamente – e frastornato di prima. Quello che si registra è anzitutto il crollo dei due partiti tradizionali, i socialdemocratici (Spd) e i conservatori democristiani (Cdu-Csu), che per la prima volta nella storia riportano un risultato al di sotto del trenta per cento. In ogni caso, escono vincitori i socialdemocratici. Tuttavia, la loro è una vittoria relativa, con il loro modesto ventisei per cento e con i conservatori sotto di nemmeno due punti.

Del resto, il “testa a testa” tra i due partiti era stato predetto già dai sondaggi. Entrambi i leader, Olaf Scholz per i socialdemocratici e Armin Laschet (il “delfino” di Angela Merkel), rivendicano il cancellierato: il primo forte del più ampio consenso elettorale e il secondo sostenendo che è sufficiente avere una maggioranza parlamentare per guidare il Governo, non essendo il primo partito in termini di suffragi. Difficile dire chi dei due la spunterà.

Quel che è sicuro è che sarà necessaria una coalizione, ma difficilmente sarà una riedizione della “grosse koalition” tra i due principali partiti: questo darà la possibilità al terzo e al quarto partito – i Verdi di Annalena Baerbock con il loro quattordici percento e i liberali (Fdp) di Christian Lindner con l’undici per cento – di incidere significativamente sugli equilibri politici della Germania post-Merkel: si troveranno a fare da ago della bilancia, nella consapevolezza che qualsiasi Governo avrà bisogno del loro appoggio per reggersi in piedi. Al punto che le due formazioni sarebbero già in trattativa tra di loro per stabilire una linea comune, indipendentemente dal possibile partner di maggioranza.

Si parla già di due possibili sbocchi: la coalizione “semaforo” (rosso, giallo e verde, cioè socialdemocratici, liberali e ambientalisti) oppure la coalizione “Giamaica” (nero, verde e giallo, vale a dire conservatori, ambientalisti e liberali). I Verdi, stando alle parole della Baerbock, propenderebbero maggiormente per la prima opzione, data la storica vicinanza con la socialdemocrazia e la maggiore sensibilità dimostrata da questa sul tema della tutela dell’ambiente. I liberali, al contrario, preferirebbero la coalizione coi conservatori, ai quali si sentono più vicini sulle materie economiche. Tuttavia, nessuna delle due forze esclude nulla, almeno per il momento. C’è voglia di far presto tra i leader dei partiti: sono molte le emergenze che il Paese deve affrontare e non ci si può permettere di tergiversare per troppo tempo. Senza contare che l’Europa osserva e aspetta ansiosa che lo “Stato-guida” del Vecchio Continente trovi una stabilità politica che sembra più che mai difficile da raggiungere. Molto dipenderà dagli accordi che si riusciranno a trovare e dalla capacità dei due partiti maggiori di trovare un compromesso vantaggioso con gli ambientalisti e i liberali.

Gli uni chiedono di cominciare a ragionare in termini di “giustizia climatica” e di imprimere una profonda svolta ecologista alla Germania. Gli altri, invece, ancor più rigoristi dei conservatori in tema di conti pubblici e di stabilità finanziaria, anche a livello europeo, chiedono severe politiche di bilancio e di revisione della spesa, oltre che della pressione fiscale. Sarà davvero un compito arduo mettere assieme e far coesistere istanze così diverse. Scholz, infatti, vorrebbe superare il rigore merkeliano e inaugurare una stagione di maggiore flessibilità; mentre Laschet vorrebbe continuità col passato, sia pure senza eccessi inutili e controproducenti. L’unica certezza nello scenario politico tedesco appena uscito dalle urne è l’isolamento nel quale sono stati relegati sia l’estrema sinistra (Die Linke) che l’estrema destra (Afd), i quali si confermano privi della capacità di influire, anche a causa della loro scarsa disponibilità al dialogo e alla loro scelta di situarsi al di fuori di quello che, in Italia, chiameremmo “arco costituzionale”.

L’ultrasinistra, che rispetto alla scorsa tornata elettorale ha perso tre punti percentuali, si attesta ora poco al di sotto del cinque per cento, la soglia di sbarramento prevista dalla legge elettorale tedesca e rischia di non entrare nemmeno al Bundestag, il Parlamento tedesco. In ogni caso, la leader Janine Wissler ha escluso la possibilità di una alleanza con socialdemocratici e Verdi dichiarando che, se dovesse farcela, il suo partito sarà all’opposizione per i prossimi quattro anni.

Cala anche – seppur più lievemente dell’estrema sinistra – la destra sovranista di Afd, guidata da Alice Weidel, che però si conferma forte nelle regioni orientali, dove ha ottenuto più suffragi dei conservatori. Sebbene la leader abbia a sua volta escluso ogni possibilità di intesa con gli altri partiti – posto che questi ultimi non hanno alcuna intenzione di lavorare con l’estrema destra – il presidente onorario del partito, Alexander Gauland, ex membro della Cdu, ha prospettato una visione alternativa rispetto a quella della Weidel: se Scholz diventasse cancelliere e i conservatori, già in crisi, dovessero essere esclusi dal Governo, a quel punto potrebbero essere tentati di dialogare con Afd e di spostarsi su posizioni più vicine a quelle di quest’ultimo su temi come il rapporto con l’Europa e le politiche migratorie. In ogni caso, prima Afd deve pensare a risolvere i suoi conflitti interni, dilaniato com’è dalla lotta intestina tra i sostenitori della linea nazionalista e radicale (che strizza l’occhio anche ai gruppi neonazisti, ai No vax e al variegato mondo del complottismo e dell’estremismo) e quelli che invece auspicano una svolta in senso più moderato e istituzionale: solo un po’ più conservatori dei conservatori stessi.

In ogni caso, sembra inverosimile che la Cdu accetti qualunque proposta di collaborazione proveniente da Afd. Per settimane si è detto che i tedeschi erano divisi tra coloro che avrebbero voluto continuità e coloro che, invece, avrebbero preferito un cambio di passo dopo sedici anni di merkelismo.

I risultati elettorali sembrerebbero confermare coi numeri tale divisione all’interno del Paese. Resta solo da vedere come volgeranno le cose e come le varie formazioni politiche riusciranno ad accordarsi. Questo, infatti, potrebbe segnare il futuro della stessa Europa: un Governo a guida socialdemocratica, probabilmente, inaugurerebbe una nuova stagione anche a livello comunitario, in quanto i cosiddetti “Paesi frugali” si ritroverebbero privati del loro principale portavoce, cosa questa che spingerebbe a una revisione delle politiche europee su spesa e debito; al contrario, se i conservatori dovessero restare alla Cancelleria, le cose rimarrebbero sostanzialmente invariate. Contrariamente a quegli italiani che sperano con tutto il cuore che Scholz sia il prossimo cancelliere, affinché si metta fine al rigore finanziario, il nostro Paese dovrebbe augurarsi che avvenga l’esatto contrario: se così non fosse, e la Germania smettesse di insistere così tanto sulla necessità di avere i conti in ordine, c’è seriamente da temere per la stabilità economica dell’Italia e di tutto l’Europa meridionale.

Con l’arrivo dei finanziamenti europei per la ripresa post-pandemia, infatti, l’assenza dei rigoristi potrebbe tradursi nel ritorno alla vecchia e tossica abitudine di spendere senza criterio e di far schizzare il debito pubblico alle stelle: dunque, di compromettere ancora di più il futuro del nostro Paese, che compromesso lo è già abbastanza e che non ha fatto nemmeno una piccola parte di quello che dovrebbe fare per “mettersi in regola” e diventare un Paese competitivo e dinamico. Il rigorismo ha avuto effetti decisamente responsabilizzanti su di noi e su tutti i “Paesi prodighi”, come l’Italia, in quanto ci ha costretto a pensare nel lungo periodo. C’è il serio rischio che il nostro percorso di “guarigione” dalla spesa pubblica compulsiva e inutile (tranne che per i partiti, che con essa ottengono e spostano il consenso delle masse) sia vanificato dall’avvento dei socialdemocratici al Governo del pilastro dell’Unione, nonché del maggior garante dell’ordine nei conti pubblici.


di Gabriele Minotti