Perché quella afgana è pure una disfatta del diritto

martedì 7 settembre 2021


Un profilo non considerato nella crisi afgana è il mancato rispetto da parte degli Occidentali presenti a Kabul fino al 31 agosto dei fondamentali della disciplina dell’asilo. Le scene diffuse dai media nella seconda metà di agosto dall’aeroporto di Kabul indicano che le migliaia di afghani e afghane in cerca di una via di fuga sugli aerei presi d’assolto hanno fortemente sperato che la comunità internazionale mantenesse l’impegno di non abbandonarli. La storia dell’Afghanistan è un paradosso. Per un verso, la morfologia del paese – l’assenza di uno sbocco al mare, la relativa scarsità di risorse prime, l’inospitalità sotto il profilo geografico e climatico – sembra renderlo un paese di scarsa rilevanza geopolitica. Per un altro verso, la storia ci racconta di una centralità persistente sia per le competizioni politiche regionali sia per le ripetute ingerenze globali, egemoniche e imperiali. Il periodo successivo alla fine della Guerra Fredda ha visto l’Afghanistan precipitare prima in una guerra civile, perpetrata da diverse influenze regionali contrapposte, e poi diventare il teatro del più lungo intervento militare mai condotto dagli Usa, dopo quello sovietico del 1979. L’Afghanistan, tuttavia, non è stato solo teatro di scontro fra competizioni globali – il grande gioco, la Guerra Fredda, la Global War on Terror – ma si trova al centro di tre complessi regionali (regional security complexes) che riversano sul paese le loro competizioni interne.

Il quadro regionale delle repubbliche centro-asiatiche, il sub-continente indiano con al centro il conflitto indo-pakistano e la regione del Golfo con al centro la rivalità Iran-Arabia Saudita, hanno trovato e trovano in Afghanistan un terreno di scontro. Queste dinamiche regionali esercitano un’influenza tanto maggiore quanto sul piano globale le grandi potenze tendono al disimpegno. Il ritiro della missione Nato Isaf e l’annuncio della conclusione della missione americana Enduring Freedom non erano coincise con un ritiro completo. Nel gennaio del 2015 entrambe erano ostituite da due interventi più leggeri: le missione Nato Resolute Support e Freedom Sentinel, per un totale di circa 16mila uomini, con compiti principalmente di addestramento e supporto alle Ansf. Benché si tratti di una presenza internazionale ridotta a circa un decimo di quella del 2011-12, alcune potenze regionali (specialmente Russia e Iran) avevano accolto con disappunto l’annuncio della continuazione dell’intervento. Erano disturbate dalla persistenza di basi Usa nella regione che, anche in assenza di una massiccia presenza militare stabile, permettessero una proiezione strategica occidentale in Asia Centrale. Dal 2015 in poi era divenuto chiaro agli attori regionali che gli Usa avrebbero progressivamente ridotto l’impegno in Afghanistan: l’opzione del surge e di un nuovo rilancio della missione era stata già tentata da Barack Obama, ma costituiva un’opzione irripetibile; quella in Afghanistan è stata la più lunga operazione militare mai condotta dagli Stati Uniti, a fronte di una prevalenza del disimpegno nell’opinione pubblica e nella classe politica. Nel 2016 le elezioni presidenziali portavano alla Casa Bianca il candidato che più di ogni altro era disinteressato all’Afghanistan: Donald Trump ha manifestato, tanto in campagna elettorale quanto da presidente, l’intenzione di invertire la rotta, e di fermare quello che riteneva uno spreco di uomini e risorse. La strategia annunciata nell’agosto del 2017 – con l’invio di altri tremila uomini e con regole di ingaggio più permissive per le operazioni offensive contro i Talebani – è stato un rilancio della missione solo apparente e di breve respiro, impostagli dai consiglieri alla sicurezza, su tutti Herbert McMaster, e dal segretario della Difesa James Mattis.

Sebbene la decisione dell’amministrazione Biden costituisca l’esecuzione degli accordi di Doha stipulati dalla presidenza Trump, è pur vero che le modalità rocambolesche con cui il ritiro è avvenuto sono il frutto di scelte attuali. Ciò che maggiormente ha suscitato stupore non è tanto la violenza o la confusione proprie di un teatro operativo di guerra caratterizzato da un ripiegamento in ordine sparso, quanto che non si abbia avuto modo di tutelare le ragioni giuridiche di coloro che avrebbero potuto subire – e oggi hanno subito e subiscono – aggressioni ai propri beni, e soprattutto alle proprie vite, da parte dei talebani.

Il Governo Usa – e con esso i Governi degli Stati occidentali coinvolti nelle operazioni in Afghanistan – avrebbe dovuto preservare prima di ogni altra istanza il diritto all’asilo di tutti coloro che non avrebbero voluto continuare a rimanere sul suolo afghano dopo il ritiro degli alleati. L’Occidente, così prodigo nella creazione dei cosiddetti nuovi diritti civili, si è mostrato dimentico dei diritti umani e naturali essenziali non nuovi, che proprio con il ritiro affrettato sono stati violati in Afghanistan, nonostante i tentativi dell’ultimo momento per salvare il salvabile. È questo il problema almeno da un punto di vista giuridico: se è vero che Joe Biden ha affermato che l’alleanza internazionale e gli Usa non erano in Afghanistan per erigere una democrazia, nonostante nel 2001 il mondo avesse compreso il contrario, è altrettanto vero che la ritirata non poteva avvenire a discapito dei diritti fondamentali di quanti ai quali andavano garantiti calma, ordine e sensus juris per permettere di domandare asilo ai Paesi occidentali ivi presenti. Per consentirlo soprattutto alla fascia di popolazione femminile che lo avesse desiderato, restia a essere assoggettata alla sharia e alla drammatica marginalità e sofferenza. Il paradigma del genere, alla base di tante rivendicazioni, scelte di governo e polemiche, negli ordinamenti occidentali, in questo caso è stato di fatto ignorato: a conferma delle frequenti ipocrisia e incoerenza che ne connota il costante richiamo.

La disfatta non è quindi soltanto politica o militare, ma prima ancora giuridica, espressione di quel precipitare della coscienza occidentale, tragicamente simboleggiato dagli afghani precipitati nel vuoto, dopo essersi aggrappati ai carrelli dei velivoli Usaf per mettersi in salvo. Se in Afghanistan non si è potuta, o voluta, costruire una democrazia, non è altrettanto certo che in Occidente, nell’Occidente emancipato, opulento e vanesio, si sia realmente compresa la posta in gioco, corrispondente anche alla civiltà del diritto.

(*) Tratto dal Centro studi Rosario Livatino


di Daniele Onori e Aldo Rocco Vitale (*)