Azerbaigian, la guerra e il lavoro di ricostruzione

venerdì 3 settembre 2021


Intervista ad Andrea Marcigliano, analista geopolitico e Senior Fellow del Think Tank “Il Nodo di Gordio”, da parte della rivista Caliber.az.

Dopo la fine della guerra dei 44 giorni, l’Azerbaigian continua il lavoro di ricostruzione su larga scala nei territori liberati. Secondo te, cosa offrirebbe il tuo Paese, quale esperienza potrebbe essere offerta da parte tua?

Il sistema industriale italiano presenta notevoli eccellenze che potrebbero intervenire nella ricostruzione del Karabakh. In particolare, nei settori della cantieristica, costruzione di vie di comunicazione, reti energetiche, sfruttamento delle risorse minerarie. Senza dimenticare il fondamentale know how italiano nel settore agricolo e della produzione alimentare.

Questa guerra è stata definita dagli esperti militari nella maggior parte dei Paesi del mondo una nuova fase nello sviluppo della scienza militare. In effetti, l’Azerbaigian ha utilizzato metodi di guerra senza contatto: attacchi di droni, missili a lungo raggio e artiglieria di cannoni e solo il successivo coinvolgimento di forze speciali e personale di fanteria. Secondo lei, questo tipo di guerra nelle zone montuose è davvero diventato una parola nuova nella scienza militare, e come verranno condotte le operazioni militari in caso di un nuovo scontro armato in Karabakh?

L’arte della guerra sta cambiando velocemente. E il recente conflitto lo ha dimostrato. Sempre più ci si dovrà basare su tecnologie avanzate, che evitino il più possibile lo scontro frontale. L’impiego di truppe speciali, con armamento tecnologico e alto livello di addestramento, di rapido impiego in specifici teatri operativi. È il logico sviluppo della strategia “Shock and How” impiegata dal Pentagono nella Seconda Guerra del Golfo. Riduce radicalmente i tempi del conflitto. Tutte le potenze stanno andando in quella direzione. Anche la stessa Cina sta rinunciando ai grandi eserciti de massa, per sviluppare forze di pronto intervento avio trasportate e altamente professionali. Un territorio montuoso rende più di altri necessario un intervento di questo tipo. Se vi dovesse esser una ripresa delle ostilità nel Karabakh, cosa che non mi auguro, non potrà che essere secondo queste modalità.

La Russia fornisce all’Armenia, come ha affermato il presidente dell’Azerbaigian, Ilham Aliyev, nella sua intervista alla Cnn, quantità significative di armi. Secondo il capo dello Stato, questo potrebbe portare a un nuovo aggravamento in Karabakh. Secondo lei cosa c’è dietro l’armamento dell’Armenia?

La Russia è molto preoccupata per la situazione in Ucraina, che, entrando nella Nato, porterebbe inevitabilmente a un conflitto, ancorché limitato, con Washington. Una proxy war. Per garantirsi le spalle, Mosca sta cercando di estendere una rete di alleanze militari a 360 gradi. In questa ottica va letta la ripresa di forniture militari all’Armenia. In realtà Putin non è interessato al conflitto per il Karabakh. Ma vuole tenersi stretti gli alleati in funzione anti NATO.

Baku ha chiesto ai massimi livelli la firma di un trattato di pace che mettesse fine al conflitto trentennale, a seguito del quale decine di migliaia di persone sono morte, sono diventate disabili e più di un milione di persone sono diventate rifugiati. L’Armenia non solo ignora questi messaggi, ma si comporta ogni giorno in modo sempre più aggressivo, almeno in termini di retorica. È una sorta di manifestazione di garanzie esterne a Yerevan dagli Stati Uniti, dalla Francia o dalla Russia?

Il Governo di Yerevan ha difficoltà interne, che lo rendono sempre più instabile. La retorica nazionalista serve a cercar di mantenere consenso in un Paese in grave crisi economica. Un vecchio sistema: si agita lo spettro del nemico, in questo caso l’Azerbaigian, per far dimenticare i problemi economici e sociali. Quanto agli appoggi, indubbiamente la lobby armena ha forti legami in Francia e Stati Uniti. Tuttavia, dubito che questi Paesi possano spendere più di buone parole per un regime considerato troppo legato a Mosca. Soprattutto Washington non sembra avere interesse nel sostenere l’Armenia, che ha una vera e propria alleanza militare con la Russia e l’Iran.

Nel corso delle ostilità, le forze armate azere hanno fatto crollare il mito dell’invincibilità dell’esercito armeno. Secondo lei, quale sarà il prossimo conflitto militare per Yerevan?

Ora come ora, Yerevan, al di là della propaganda, non mi sembra in grado di affrontare un nuovo conflitto. L’appoggio russo non sarebbe né sufficiente, né assoluto. Mosca non vuole un conflitto in Caucaso che la coinvolga, proprio nel momento in cui deve concentrare le sue forze sul fronte ucraino.

L’Italia è il nostro principale partner nei paesi dell’Unione europea. Durante la guerra, Roma assunse una posizione equilibrata, che non poteva non trovare comprensione e gratitudine dall’Azerbaigian. Cosa pensi sia già cambiato e cos’altro può cambiare in meglio nei rapporti tra i nostri Paesi?

Roma ha sempre mantenuto eccellenti rapporti con Baku, e auspicato una soluzione pacifica ed equa del conflitto. I legami di amicizia tra Italia e Azerbaigian sono forti, e così i comuni interessi e la collaborazione del nostro sistema industriale con quello azero. Come dimostra la realizzazione di una infrastruttura fondamentale come il Tap. Purtroppo, però, gli ultimi due governi italiani sono pressoché assenti sui grandi temi di politica estera, e incapaci di iniziativa. Draghi si limita ad appiattirsi sulle posizioni di Washington e Londra, più che cercare di incidere all’interno dell’Unione europea.

(*) Tratto da Il Nodo di Gordio


di Redazione (*)