L’Afghanistan visto da Istanbul: intervista a Mariano Giustino

venerdì 27 agosto 2021


L’Opinione ospita una illuminante intervista a Mariano Giustino, corrispondente da Istanbul di Radio Radicale e di Huffington Post, e uno dei protagonisti della lotta del Partito Radicale contro la partitocrazia e per diritti umani. La discussione parte dal rapporto tra Turchia e Afghanistan in un’area che include l’Asia del Sud-Est e le nazioni a Nord della cordigliera montuosa asiatica, cioè l’ex “Sovietistan”, in un quadro in cui si riaffaccia il terrorismo di Isis-K.

Anche la Turchia, nonostante l’apertura di credito ai taliban da parte di Erdogan, è stata esclusa da Kabul e dal previsto controllo del suo aeroporto, martoriato dai vili attentati di Isis-K. Come è successo?

L’apertura di Erdogan ai taliban aveva sorpreso la stessa Turchia. Un appoggio “soft” era previsto e includeva il controllo dell’aeroporto di Kabul, col placet di Washington. Ma poi i taliban si sono opposti alla presenza turca nel nuovo Afghanistan, perché Ankara è intervenuta con la Nato dal 2001 e ha controllato col placet degli Usa l’aeroporto di Kabul, a partire dal 2015. Di conseguenza il ritiro turco è andato di pari passo con quello delle altre nazioni occidentali. Tuttavia, prima dei gravi attentati proprio nella zona dello scalo aereo di Kabul, il portavoce taliban Mujahid ha aperto a una eventuale gestione dell’aeroporto da parte di personale non militare turco. Ciò conferma che la Turchia per il nuovo Governo afgano è sempre un “Grande fratello islamico”.

Perché allora Erdogan vuole rientrare in Afghanistan?

Erdogan vuole condizionare il nuovo Governo facendo leva su alcuni capi taliban, come Gulbuddīn Hekmatyār, ex leader guerrigliero contro l’invasione russa, poi fondatore e leader del partito e gruppo armato Ḥezb-i Islāmī (Partito islamico). Hekmatyār vuole un governo inclusivo, così come del resto anche il governo del Tagikistan, che chiede il rispetto delle tribù non pashtun-taliban, a partire dai tagiki (seconda etnia in Afghanistan dopo i pashtun, ndr) fino agli uzbeki e turkmeni. Senza il rispetto delle tribù legate alle nazioni ex-sovietiche non ci sarà nessun riconoscimento di un governo taliban da parte tagika. I legami tra Erdogan e Hekmatyār risalgono ai tempi della guerriglia contro l’esercito sovietico. Un altro leader afghano vicino a Erdogan è Salahuddin Rabbani, capo del Partito islamico-tagiko Jamiat-e Islami, ex ministro degli Esteri ed ex ambasciatore in Turchia dal 2011 al 2012. Nei mesi scorsi erano previsti dei colloqui di pace per la transizione a Istanbul, che seguivano quelli di Doha. Oggi sembra fantascienza, quel tentativo.

Quindi l’Afghanistan era già uno dei focus dell’agenda geopolitica turca, con Libia, territori curdi e Siria?

Erdogan utilizza la carta afghana per consolidare la sua posizione nei negoziati sui diversi dossier aperti con Stati Uniti e Unione europea, per i quali ha compromesso la sua immagine. L’altra ragione è di politica interna. Il leader turco perde sempre più consensi nei sondaggi e intende assecondare i circoli ultranazionalisti e panturanici che potrebbero abbandonarlo e che all’interno della sua alleanza di Governo spingono per l’adozione di una dottrina eurasista che prevede che la Turchia si riorienti allontanandosi dall’Occidente, guardando alla Russia e alla Cina e all’entroterra dell’Asia centrale e orientale dove vi sarebbero le radici storiche e culturali della turchicità. Senza dubbio alla base degli sforzi di Ankara per rafforzare il suo ruolo in Afghanistan vi sono anche ragioni economiche, in attesa dell’avvio di grandi progetti di costruzione e infrastrutture nel paese devastato dalla guerra.

Poi c’è il tentativo di proporsi come nuovo leader di tutto l’Islam…

Quello è un sogno irrealizzabile ma che è parte del suo repertorio retorico, che mira ad attirare le simpatie dell’opinione pubblica interna più nostalgica. Costruire un nuovo impero ottomano è uno slogan utile a tenere legati i movimenti politici di destra nazionalista e kemalisti ultranazionalisti. È però vero che Ankara vuole diventare mediatore globale tra Occidente e Islam. Per riuscire in quel compito la carta di Kabul è una ennesima occasione che gli si presenta.

Erdogan cerca di recuperare i consensi elettorali perduti…

La sconfitta elettorale in tutti i grandi centri urbani turchi a partire da Istanbul, dove vivono 15 degli 82 milioni di turchi ha prodotto una profonda ferita nell’immagine di Erdogan e del suo partito, che ha subito due scissioni che hanno prodotto la nascita di nuove formazioni politiche a lui contrapposte.

Ci sono possibilità di successo per la Turchia in Afganistan, nel caos tra islamisti, tribù e interessi internazionali?

Senza dubbio nello sforzo di Ankara a Kabul ci sono anche ragioni economiche. Si tenga presente un dato fondamentale: Ankara è parte dei due assi sunniti che si contrappongono. Il primo comprende Pakistan e Turchia, con Qatar e Malesia. Il secondo include Egitto, Arabia Saudita ed Emirati.

L’Iran limita la sua azione alla tutela dell’etnia hazara, perseguitata in tutto l’Afghanistan, perché di confessione sciita?

Il ruolo dell’Iran è sottovalutato dai media e dagli analisti di geopolitica. Non si tratta solo della tutela degli hazara sciiti. L’Iran ha sostenuto il cambio di regime per continuare l’approvvigionamento di acqua del fiume Helmand, che nel suo tratto finale scorre nella regione del Sistan, e alimenta circa un milione di persone. Il controllo della provincia di Helmand, dove risiedono le tribù Alizai, Noorzai e Ishaqzai (tribù pashtun dell'Afghanistan meridionale e del Balochistan, in Pakistan), significa avere anche il controllo di una serie di dighe e di canali costruiti dall'Agenzia statunitense per lo sviluppo internazionale negli anni Cinquanta-Settanta, che attraversano anche la regione iraniana del Sistan, le cui acque alimentano circa un milione di persone.

In Afghanistan tutti sembrano estremamente disinvolti e cinici…

Non solo in Afghanistan. Le alleanze sono sempre meno strategiche e sempre più basate su rapporti transazionali. Israele che collabora coi sauditi in funzione anti-iraniana, Russia e Iran in Siria e Russia e Turchia in Libia. Oggi ci sono solo alleanze momentanee e di convenienza per obiettivi limitati nello spazio e nel tempo. Ce ne dobbiamo rendere conto.

Nessuno – inclusa la Turchia – si occuperà dei turcofoni dello Xinjian cinese, alquanto massacrati e deportati da Pechino, alla faccia del “soft power”? Pechino ha posto come condizione principale al prossimo Governo la non interferenza con l’indipendentismo islamico cinese…

Ben cinquantamila uiguri hanno trovato rifugio in Turchia, e alcuni di loro hanno combattuto in Siria. In Turchia fino a poco tempo fa si parlava apertamente di “genocidio uiguro”. Poi è arrivata la crisi economica, che ha colpito pesantemente il Paese ed Erdogan si è trovato costretto ad aprire le braccia a Pechino, al suo vaccino anti-Covid e a un prestito di quattro miliardi di dollari. Il corridoio anatolico è indispensabile per il progetto faraonico della Belt and Road Initiative (la Nuova via della Seta). Il 4 dicembre dello scorso anno è partito il primo treno merci da Istanbul che ha raggiunto la città nordoccidentale della Cina, Xi’an, percorrendo 8.693 chilometri con 42 container che trasportavano prodotti per un valore di circa 10,4 milioni di yuan (circa 1,59 milioni di dollari). Ora Ankara e Pechino cooperano per rivitalizzare l’economica in tutta l'Eurasia. Pechino prevede di estendere il corridoio economico Cina-Pakistan all'Afganistan. Quando parliamo di interessi cinesi in Afghanistan guardiamo anche al Five Nations Railway Corridor Project, il progetto del corridoio ferroviario delle cinque nazioni che collega Cina-Kirghizistan-Tagikistan-Afghanistan-Iran.

Scommetto che alla fine ci hanno rimesso gli uiguri…

In effetti Ankara ha cambiato la sua politica pro uigura, anzi ci sarebbero accordi con la Cina per “rimpatriare” i 50.000 profughi uiguri ospitati da Ankara.

Purtroppo di questo nel G7 come nel G20 o G22 non si discute, e anche i media mainstream e politicamente corretti stanno zitti, perché non si tratta di Francia o Israele o Regno Unito o degli “amerikani”…

Un’operazione del genere la Turchia non la può fare alla luce del sole. Restituire a Pechino 50.000 ribelli uiguri creerebbe un problema interno al Paese, e il leader turco sarebbe accusato di non tutelare una minoranza musulmana. Ci sarebbe però un tacito accordo che prevederebbe il trasferimento degli uiguri in un paese terzo come il Tagikistan, che non avrebbe problemi a trasferire in seguito i profughi alla Cina.

Dopo la ritirata Usa, ridicola perché prevedeva di uscire dall’Afghanistan per concentrarsi sul contenimento della Cina, mentre ha ottenuto l’effetto opposto, cosa dobbiamo prevedere per la geopolitica internazionale?

Nel Medio Oriente gli Usa si limiteranno al contenimento dell’Iran, come è avvenuto già con Obama e Trump. Per contenere l’espansionismo economico di Pechino, Biden potrebbe cercare di coinvolgere anche l’India, l’altro grande Paese preoccupato per la débacle afghana, e forse cercherà anche di trovare una maggiore interlocuzione con la Russia, in funzione anti Pechino, come già ha tentato di fare Trump, e come sembra fare la Germania, per la fornitura di gas (vedi gli accordi sul Nord Stream).


di Paolo Della Sala