Afghanistan: un santuario per il jihadismo internazionale

giovedì 5 agosto 2021


Una canzone del cantante Garbo del 1984 recita: “A Berlino che giorno è?”. Era appunto il 1984, e nel testo si parla del Muro, che solo lui “non ha freddo”, di fumo, di nebbia e di una città senza “tempo”; la melodia da un’idea di grigio, di rassegnazione, di triste adattamento, di “mancanza”. A Kabul che giorno è? Il “Muro” non c’è fisicamente, ma le “barricate” si, queste sono erette ancora dalle forze militari straniere, ancora per poco presenti, ed anche a Kabul sembra che il “tempo” sia assente e qui una fredda e incombente nebbia, densa di anti-libertà talebana, si sta impadronendo delle vacue speranze. L’incertezza degli afgani è assoluta. Nella cittadina di Lashkar Gah, nella provincia di Helmand, il 3 agosto, almeno cinquanta civili sono stati uccisi dai talebani, mentre in un attentato con autobomba, avvenuto a Kabul, sono morti altri quattro civili e venti sono stati feriti. Il generale Kenneth McKenzie, capo delle operazioni militari statunitensi in Afghanistan, ha dichiarato, a fine luglio, che gli Stati Uniti avrebbero continuato ad attaccare i talebani se questi non avessero cessato le loro offensive, rimandando, in teoria, a tempo indeterminato il ritiro completo delle forze statunitensi, previsto entro il 31 agosto.

L’attentato a Kabul di martedì sera si è verificato nei pressi dell’abitazione del ministro della Difesa afghano, ed è stato effettuato, come detto, con un’autobomba, di seguito due detonazioni di notevole intensità, poi da numerose altre esplosioni minori, e da spari, sia con armi leggere che pesanti. Subito dopo un attacco di uomini armati che a piedi hanno tentato di avvicinarsi alla residenza del ministro. L’assalto è terminato ore dopo e gli aggressori sono stati sterminati, così ha riferito in un comunicato ufficiale il portavoce del ministero dell’Interno afghano Mirwais Stanekzai. Leggendo i vari avvisi emanati da autorità, sia afgane che statunitensi, si percepisce un certo “disorientamento politico-strategico”. All’affermazione del portavoce della diplomazia Usa, Edward (Ned) Price, che sottolinea la necessità, già dimostratasi fallimentare, di “accelerare i colloqui di pace in corso (con i talebani), ribadendo l’importanza di convincere i talebani che non potranno mai governare il Paese prendendo il potere con la violenza, segue la risposta del generale Sami Sadat, vertice militare nel sud dell’Afghanistan, che afferma: “combatteremo duramente i talebani”, “non lasceremo in vita un solo talebano”. Espressioni di forte contraddizione strategico-politica.

Il 3 agosto il portavoce della Missione di assistenza delle Nazioni Unite in Afghanistan, Manua, ha riferito che nelle ultime 24 ore alcune decine di civili sono stati uccisi, e circa 120 feriti; aggiungendo che i soldati regolari devono fare di più per proteggere i civili, o le conseguenze saranno catastrofiche. I talebani sono stati respinti per la prima volta sabato da Lashkar Gah, poi domenica sono tornati rafforzati riuscendo a rientrare in questa città di 200mila abitanti. Oltre che a Lashkar Gah, i jihadisti si stanno scontrando con le forze afgane anche a Kandahar ed Herat, dove sono stati attaccati anche gli uffici di Manua. Purtroppo fonti Manua, affermano che l’offensiva sul terreno contro i talebani e i bombardamenti aerei dell’esercito afghano, stanno facendo più danni ai civili che ai ribelli. Intanto, dopo venti anni, si è concluso il più lungo intervento degli Usa all’estero. Lanciato all’indomani degli attentati dell’11 settembre 2001, era finalizzato a impedire ad Al-Qaeda di pianificare ulteriori attacchi dalla sua “tana afghana”. L’umiliante ritirata dall’Afghanistan degli Stati Uniti e dei Paesi occidentali impegnati a loro fianco, si è conclusa con un triste primato: più di tremilacinquecento soldati della Nato morti in azione, insieme a molti altri militari afgani, a questi vanno aggiunti i feriti e i mutilati. Scacciati dal potere all’inizio dell’offensiva Usa, i talebani e i fondamentalisti che proteggevano Osama bin Laden, stanno ora tornando drammaticamente in molti distretti del Paese.

In questo sconcertante scenario una categoria della popolazione ha molto da perdere con la partenza degli occidentali: le donne. Infatti sono loro a rischiare di più se i talebani torneranno al potere a Kabul. In questi ultimi vent’anni il loro status è notevolmente migliorato, e anche se con estreme difficoltà, hanno potuto istruirsi; oggi il 40% dei bambini afgani che frequentano la scuola sono ragazze, molte riescono anche a frequentare l’università. Molte donne hanno creato attività lavorative, prima vietate e hanno acquisito dei ruoli all’interno delle forze dell’ordine. I fondamentalisti talebani hanno fatto di tutto per fermare questo sviluppo. Hanno ucciso giornaliste, agenti di polizia, artisti e medici. Hanno massacrato studentesse, hanno attaccato ospedali dove operavano i dipartimenti di maternità e ginecologia. Per tutte queste donne, la guerra non è stata mai interrotta.

Dal 1996, e durante i cinque anni di governo talebano, fino all’intervento degli Stati Uniti, alle donne e alle ragazze afgane è stata imposta la più rigida distorsione della interpretazione della legge islamica, con la loro totale sottomissione, punendo severamente le ribelli. L’istruzione oltre gli otto anni era vietata, così come il lavoro retribuito. Ora per quelle donne afghane, sulle quali i vari Presidenti Usa hanno intessuto le proprie lodi per averle aiutate a ritrovare l’uguaglianza e la libertà, con il ritorno dei talebani, si apre la prospettiva di un colossale passo indietro. In una guerra ingestibile l’angoscia più grande è che l’Afghanistan potrebbe tornare ad essere un santuario per il jihadismo internazionale; ed anche nella infelice ipotesi di un governo di unità nazionale, composto dall’attuale regime e dai talebani, ritornerebbe la domanda “A Kabul che giorno è?”.


di Fabio Marco Fabbri