Primavera addio! La perdizione di Ennahda

mercoledì 4 agosto 2021


Allora è vero che i dittatori non muoiono mai! Di loro, in un modo o nell’altro, resta sempre qualcosa. Forse sarà perché, comunque, le leadership non nascono dal nulla ma originano da un preciso retroterra locale e, non di rado, internazionale. Del dittatore tunisino Zine El-Abidine Ben Ali, estromesso a furore di popolo il 14 gennaio 2011 dal potere assoluto che deteneva da 24 anni, è rimasto intatto quel livido e marcescente humus della corruzione dilagante. Nel panorama socio-politico della Tunisia rimane endemico e irremovibile, infatti, il degrado prodotto dall’onnipresenza del clientelismo tribale e familistico, che nemmeno ripetute e regolari elezioni democratiche a suffragio universale hanno saputo rimuovere dall’apparato burocratico pubblico, sia a livello locale che nazionale. Soprusi e abusi delle autorità e dei raïs locali continuano indisturbati come prima e più di prima. Nel suo approfondimento “La Tunisie, maison témoin de la démocratie au Magreb, peut-elle basculer?”, Le Figaro del 30 luglio osserva come i tunisini, nel corso delle prime elezioni totalmente libere e trasparenti del mondo arabo, abbiano dato mandato ai loro eletti di ripristinare il corretto funzionamento dello Stato e di assicurare alla giustizia i funzionari infedeli. “Ebbene, non soltanto queste due richieste sono state disattese ma, per di più, la situazione pregressa si è notevolmente aggravata: mai come oggi lo Stato tunisino è apparso così impotente e debole”.

Se prima della pandemia la gente comune se la sbrogliava da sé approfittando dei consistenti flussi di valuta generati dal turismo estero, con la piaga del Covid tutti quei redditi in nero, precari ma sicuri, sono scomparsi e con essi tanti piccoli commerci di strada che, malgrado le vessazioni dei funzionari pubblici, permettevano alle fasce più svantaggiate della popolazione di sbarcare quotidianamente il lunario, soprattutto nel caso dei più giovani, il cui livello di disoccupazione sfiora oggi il 60 per cento, riempiendo le strade delle città tunisine di protesta e di violenza contro il governo e, soprattutto, nei confronti dell’Ennahda. Infatti, il Partito islamico (che è il socio di maggioranza del Governo e ha il maggior numero di seggi in Parlamento) è colpevole agli occhi dei tunisini che lo hanno votato di non aver mantenuto le sue promesse elettorali di moralizzare la vita del Paese, e di non averne favorito la rinascita economica. La catastrofica gestione del Covid ha fatto sì che, a seguito delle violente manifestazioni di piazza, il presidente Kaïs Saïed si avvalesse dei suoi poteri presidenziali, previsti dall’art. 80 della Costituzione tunisina, per sospendere il Parlamento, dimissionare il primo ministro e i membri più autorevoli del suo Governo, compreso il ministro della Sanità, affidando la gestione del Covid-19 all’esercito. Il tutto, senza al momento ottenere gli esiti sperati, visti il caos che continua a regnare nei centri vaccinali e la drammatica carenza di vaccini.

Malgrado Kaïs Saïed sia stato eletto con i voti degli islamisti, il Presidente ha preso progressivamente le distanze da Ennahda all’inizio del 2021. Di fatto, il Partito islamista ha perduto più di un milione e mezzo di voti nelle ultime elezioni del 2018, riuscendo tuttavia a mantenere la maggioranza relativa in Parlamento grazie, rispettivamente: all’abilità dialettica del suo leader, Rāshid al-Ghannūshī, che ha saputo nascondere sotto il tappeto la polvere della corruzione islamista; alla frammentazione del quadro politico tunisino; al successo della propaganda moralizzatrice degli islamisti contro la corruzione. Impegni completamente traditi, dal punto di vista dei suoi elettori. Ennahda, infatti, pur avendo i poteri per farlo, ha scelto il compromesso con gli ex signorotti corrotti del precedente regime, mentre non pochi dei suoi dirigenti hanno fatto un uso privatistico, ai fini dell’arricchimento personale, dei consistenti finanziamenti pervenuti dai loro sponsor musulmani di Qatar e Turchia. Sicché, oggi, i tunisini si trovano di fronte ben tre raggruppamenti mafiosi. Il primo è costituito dalle popolazioni frontaliere, che hanno ripreso in grande stile il traffico di contrabbando con l’Algeria e la Libia, scambiando petrolio contro ogni sorta di beni. Ne deriva che più l’economia legale tunisina affonda più se ne avvantaggia quella informale, al punto che il Pil ufficiale, secondo alcune stime, rappresenta meno della metà di quello reale.

La seconda mafia è quella dei gruppi familiari (una quindicina di famiglie che vantano ricchezze miliardarie in euro e che hanno il controllo dell’economia e dello Stato!) che hanno fatto fortuna dopo le campagne di liberalizzazione decise dal regime socialista a partire dagli anni 70, continuando poi a prosperare indisturbate negli anni successivi, grazie alle rendite e ai monopoli loro concessi dai regimi totalitari e dispostici di Bourghiba e di Ben Alì. Un terzo gruppo, nato dopo la rivoluzione e cresciuto sotto l’ala protettrice di Ennahda, ha visto la fioritura di piccole fortune personali, spesso pilotate e finanziate dalla Turchia, preoccupata di orientare a proprio vantaggio i flussi commerciali tunisini.

Gli oppositori del Partito islamista accusano i loro leader di essersi macchiati di tre crimini imperdonabili: la prevaricazione del diritto sotto ogni profilo, a seguito del pieno controllo sull’istituzione giudiziaria di Ennahda, che ne ha determinato la progressiva paralisi; l’asfissia dello Stato, conseguente all’assunzione nei ranghi della pubblica amministrazione di qualcosa come 200mila militanti nahdhauiti e dei loro familiari, privi di una vera competenza e entrati senza concorso! A costoro, per di più, sono state ricostruite le carriere, esclusivamente sulla base della durata della loro militanza nel tempo, che per i più anziani ha significato il riconoscimento di qualcosa come trenta anni di servizio pregresso e mai prestato! E nonostante questo immane disastro, a luglio scorso Ghannūshī ha tentato di far votare in Parlamento uno stanziamento di un miliardo di euro, per risarcire i suoi militanti islamisti che avevano subito presunte vessazioni e persecuzioni sotto il regime di Ben Alì! Ennahda con simili comportamenti ha dissanguato lo Stato, portando il debito pubblico tunisino al 100 per cento. Quindi, stando così le cose, anche per Tunisi sembra venuto il momento di passare la parola all’autocrate di turno, nella speranza che riesca a evitare una nuova guerra civile!


di Maurizio Guaitoli