Guerra del Tigrè: violenze e crisi umanitaria

giovedì 15 luglio 2021


“Sono venuta qui perché ho visto ragazze come me essere stuprate”. Le parole di Meron Mezgeb, una ragazza tigrina di 16 anni, dipingono a colori vividi la realtà di una guerra che, da novembre 2020, insanguina l’Etiopia. Una guerra in cui fame e violenze sessuali di massa vengono usate come armi, per piegare la resistenza di una popolazione che si è trovata bersaglio di una vera e propria pulizia etnica.

“In realtà volevo combattere dall’inizio, ma mi hanno detto che ero troppo giovane – continua la giovane, in fila per prendere un’arma e unirsi alla lotta – ma ora che ho visto i miei compagni arrivare qui, sono venuta per combattere e fare tutto quello che posso”. Nel video, ottenuto da Associated Press e fatto uscire dal Tigrè solo diversi giorni dopo, vediamo scene di giubilo e festa. Centinaia di persone sono scese in strada per festeggiare la liberazione della capitale regionale Macallè, dopo mesi di occupazione da parte delle forze governative etiopi e la caccia dei loro alleati eritrei ai leader tigrini.

Bandiere, balli, veicoli carichi di soldati della Tdf (Tygrean Defence Force) vittoriosi e la sfilata dei 6mila soldati governativi presi prigionieri dai ribelli documentano il punto di svolta nel conflitto che ha visto, fino a tre settimane fa, le forze del primo ministro, Abiy Ahmed, affiancate da truppe eritree e dalle milizie della regione di Amhara, occupare gran parte del territorio tigrino, in una campagna di distruzione e violenza.

Centinaia di testimonianze di donne e ragazze definiscono i contorni di una guerra sporca”, in cui lo stupro viene utilizzato come vera e propria arma. Soldati che arrivano nelle loro abitazioni e chiedono dove siano gli uomini, tutti accusati di essere combattenti ribelli e, una volta che questi non vengono trovati, mogli, sorelle e figlie diventano le vittime di violenze sessuali di gruppo.

Secondo l’amministratore dell’Ayder Hospital di Macallè, durante l’occupazione della città le vittime non venivano a cercare aiuto per paura di ritorsione da parte delle milizie. Oltre a ferite, gravidanze non volute e diffusione di malattie sessualmente trasmissibili, le violenze hanno devastato famiglie e comunità. Le poche donne che si sono rivolte a strutture ospedaliere per ricevere cure mediche nascondono la loro identità, per paura di essere ostracizzate dalle famiglie e sono state accolte in una comunità protetta, la cui locazione è segreta.

Il Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite, oltre a richiedere la ritirata delle forze eritree dalla regione con una risoluzione del 12 luglio, ha sollevato anche la questione degli abusi perpetrati ai danni dei civili. L’Eritrea non ha ancora rilasciato una dichiarazione a riguardo ma, nei mesi scorsi, si era prodigata per nascondere la presenza delle proprie truppe nel Tigrè. È probabile, dunque, che non vi sarà la trasparenza auspicata sulla questione.

Il Governo etiope, accusato di crimini di guerra e pulizia etnica, ha blandamente gestito il problema delle violenze perpetrate dai suoi uomini, incarcerandone alcuni e mettendone sotto processo un numero irrisorio. Un evidente tentativo di calmare le acque a livello internazionale, peraltro contrastato dalle testimonianze, raccolte da Reuters, della chiusura forzata di eserciti commerciali nella capitale Addis Abeba e l’arresto dei proprietari, di origine tigrina, per presunti legami con il Tplf (Tigray people’s liberation front). Le autorità etiopi hanno negato la veridicità di queste dichiarazioni, sostenendo che la “purga” del popolo tigrino non rientra nei piani del Governo.

Queste affermazioni e i tentativi di nascondere gli atti deplorevoli compiuti dalle milizie si scontrano con l’imminente ripresa del conflitto e la strategia adottata dal Governo etiope dopo l’efficace controffensiva della Tdf. Il Tigrè si trova letteralmente in stato d’assedio: i principali collegamenti via terra con l’esterno sono stati distrutti dalle forze governative e dai loro alleati, gli aiuti alimentari delle Nazioni Unite, sui quali si basa la sopravvivenza di 400mila persone, vengono bloccati ai confini della regione e le aree più fertili e popolose sono sotto il controllo delle autorità regionali di Amhara che, dopo l’annuncio di ieri della sospensione della tregua, hanno annunciato la mobilitazione delle milizie irregolari e il progetto di attaccare le forze tigrine nelle zone di confine tra le due regioni, oggetto di contesa già da prima dello scoppio del conflitto. A questa drammatica situazione si aggiungono anche due milioni di rifugiati dispersi tra Sudan e campi profughi che, spesso, si ritrovano coinvolti negli scontri a fuoco.

La guerra in Tigrè si sta trasformando in vero e proprio disastro umanitario. I civili, tanto quanto i soldati, si trovano coinvolti in prima linea e costretti a subire violenze di ogni genere. Le strutture ospedaliere, sistematicamente distrutte dalle forze etiopi, non riescono a gestire l’emergenza sanitaria e la penuria di medicinali non permette una cura adeguata di profughi e prigionieri di guerra. Lo spirito dei combattenti e dei loro leader, però, sembra ancora solido. Giovani reclute, come Meron Mezgeb, sono pronte a prendere le armi e difendere il loro diritto di esistenza come popolo e i crimini delle truppe governative non fanno altro che esacerbare questo sentimento.


di Filippo Jacopo Carpani