E la Nato che fa? L’arma spuntata

martedì 22 giugno 2021


E Dumini che fa?”. Questa fu la frase celebre, quanto mai infausta, detta da Benito Mussolini ai suoi collaboratori più stretti: domanda retorica che, interpretata ultra petita, portò nel 1924 all’efferato e politicamente disastroso assassinio dell’onorevole socialista Giacomo Matteotti. La stessa, provocatoria allusione la si può rivolgere oggi alla Nato, “che fa” dopo la Guerra Fredda? Risposta: ne aspetta… un’altra! Solo che quest’ultima non ci riguarderebbe direttamente.

In merito, rimangono alcune questioni in sospeso. In primo luogo: perché l’Alleanza militare delle potenze occidentali non è entrata in disarmo dopo il 1992? La risposta sta, per un verso, nei timori ancestrali nutriti verso la Russia dai Paesi europei dell’ex Cortina di Ferro, appena riapertisi alla democrazia e al capitalismo dopo la caduta del Muro di Berlino nel 1989 i quali, una volta liberatisi dal comunismo, intendevano a tutti i costi proteggersi dietro lo scudo della Nato dai (prevedibili, come poi così è stato!) tentativi di riconquista e riannessione della Russia post-sovietica. Sull’altro versante la Turchia, porta verso l’Oriente, avrebbe dovuto continuare a svolgere ancora per qualche tempo il ruolo di Guardiano, in nome e per conto dell’Occidente, sul fronte mediorientale allora controllato in gran parte da regimi arabi ostili agli Usa e ai loro alleati, in quanto già orbitanti tradizionalmente nella sfera di influenza dell’Urss.

Dopo il 1991, e forte del falso mito della Fine della Storia, con il capitalismo di mercato trionfante e imposto come pozione magica alla Russia post-sovietica di Boris Eltsin (con risultati disastrosi e devastanti per l’economia e il welfare dei cittadini russi), l’Occidente si dimostrò abbastanza arrogante ed esaltato come vincitore della Guerra Fredda, per ignorare l’insistente richiesta di Mosca di non estendere i confini dell’Alleanza Atlantica ai Paesi ex socialisti dell’Europa dell’Est. Se, allora, avessimo accondisceso in maniera lungimirante a quella richiesta, firmando un patto di non aggressione e di cooperazione militare con la Russia di Eltsin, a quest’ora non staremmo a parlare di Vladimir Putin e di Recep Tayyip Erdogan, con la difficoltà ben nota che rappresentano i nostri problematici, attuali rapporti con la nuova Russia, militarmente più forte di prima (grazie alla vendita a prezzi di mercato delle sue immerse risorse di gas e petrolio!) e con un alleato-avversario come la Turchia. Avvantaggiandosi dell’attuale scenario che vede un Occidente profondamente indebolito e diviso al suo interno, Ankara ha le mani libere (tenendoci in scacco qui in Europa con il ricatto dell’immigrazione!) per giocare disinvoltamente la sua partita su vari tavoli della geopolitica contemporanea.

Il primo asse strategico della politica turca attuale ha alla sua base un movente di tipo religioso-fondamentalista, che guarda al risorgimento arabo e alla difesa planetaria dei fedeli musulmani; mentre il secondo volano, più prettamente secolare, fa riferimento al recupero dei valori e dell’influenza dell’Impero ottomano nei domini delle ex province di Siria, Libia, Libano e Iraq. L’altra spina dolente nel fianco della Nato si chiama Vladimir Putin, dato che il pericolo ben maggiore rappresentato dalle mire imperialiste di Xi Jinping nel Mar Meridionale di Cina costituisce (almeno per ora!) una sfida ancora lontana, per essere percepita come una minaccia concreta per il Vecchio Continente che, come la Cina, avrebbe tutto da perdere in caso di conflitto aperto. Eppure, dovrebbe essere chiaro che non basta guardarsi solo dal vicino. Un’aggressione militare cinese per la riannessione forzata e anticipata di Taiwan alla madrepatria potrebbe davvero portare il mondo sull’orlo di una guerra mondiale (o, quantomeno, di una nuova Guerra Fredda!), alla Pearl Harbour, così come avvenne nel 1941 con l’attacco a tradimento dei giapponesi ai danni della Marina degli Usa.

Ma qui casca l’asino: una Nato allargata per un intervento in difesa di Taiwan dovrebbe, come minimo, inglobare Giappone, Australia, Nuova Zelanda e Corea del Sud, atteggiandosi a braccio armato di una Coalizione mondiale delle democrazie. Una logica di blocchi spinta all’estremo, pertanto, che però suonerebbe di certo la campana a morto per la mondializzazione dell’economia. Conviene, quindi? È vero però che i potenti vicini del gigante asiatico, nostri alleati politici, non dormono di certo sonni tranquilli di questi tempi. Tradizionalmente, nota Le Monde nell’articolo “Les Européens réticents à une opposition frontale contre Pékin”, Giappone, Corea del Sud e i Paesi che fanno parte dell’Asean (Associazione delle nazioni del Sud Est asiatico), tra cui Singapore, Filippine, Thailandia, Malesia e Indonesia, pur facendo riferimento alla sfera di influenza americana, sono anche profondamente combattuti tra la politica degli affari (la Cina è un mercato immenso!) e il timore fondato dell’espansionismo politico-militare di Pechino. Tanto più che la Cina, rivaleggiando con gli Usa, ha tutto l’interesse a sottoscrivere pacificamente accordi di partenariato con i Paesi dell’Asean, cercando in tal modo di sottrarli all’influenza americana. Resta il fatto che il Mare meridionale cinese rappresenta un contenzioso importante tra Pechino e alcuni Paesi strategici dell’Alleanza, come Vietnam, Filippine e Malesia.

Del resto, la Cina di oggi è ben lontana dall’onnipotenza dato che, a proposito di colpi di Stato pilotati, “non riesce nemmeno a imporre la sua volontà al Myanmar, che rappresenta uno Stato tra i più deboli della regione!”. Invece, presso i Paesi asiatici più liberi e democratici, l’impopolarità della Cina si fa sempre più pronunciata, anche grazie alle prodezze e all’arroganza dei suoi diplomatici d’assalto che si definiscono Lupi combattenti! Questi ultimi, tuttavia, hanno ricevuto ultimamente dallo stesso Uomo solo al comando (Xi Jinping) una bacchettata sulla lingua, dopo essere stati invitati dalla Guida Suprema a “sforzarsi di costruire un’immagine affidabile, ammirevole e rispettabile della Cina, attraverso un’unica voce a livello internazionale che sia conforme alla sua potenza nazionale globale e alla sua statura internazionale”.

Insomma, con il suo intervento Xi Jinping ha fatto capire ai suoi cittadini che “la propaganda fa parte della lotta ideologica”. Vladimir Lenin e Joseph Goebbels non potrebbero che essere pienamente d’accordo con lui! Morale: “Scommettere su di una Cina suadente non è per nulla realista a breve termine. Ma, fare affidamento sulla sua debolezza lo è ancora meno!”. Parole sante.


di Maurizio Guaitoli