Mexico-Mexico: il populismo di sinistra

venerdì 4 giugno 2021


Esiste un populismobuono? Sì, ma purché di sinistra. In America Latina ha il volto e il nome di due presidenti: il venezuelano Nicolás Maduro e il messicano Andrés Manuel López Obrador. Del primo, la politica e i media internazionali sono stati costretti a occuparsene a causa dei moti popolari di protesta contro la miseria, la corruzione e la violenza politica delle milizie civili armate e sostenute dal regime, e che hanno mostrato al mondo (ma non, forse, al Vaticano!) il volto di un potere dispotico e odioso. Il Venezuela, in opposizione agli Stati Uniti e all’Occidente, si è consegnato mani e piedi a improbabili alleati, quali Iran, Russia, Cina e Cuba, tutti interessati in particolar modo ad assicurarsi a prezzi di saldo le sue ingenti risorse petrolifere, approfittando dell’estremo stato di indigenza (anche a causa delle sanzioni Usa, occorre dire) di un popolo stremato dalle dissennate politiche socio-energetiche di Maduro.

Invece, assai meno noto è il profilo del suo omologo messicano, López Obrador, che non si vede molto ma fa ancora peggio del suo collega dittatore di Caracas. Su di lui, tra gli altri, pone l’attenzione un reportage informato e approfondito di The Economist (“The puritan from Tepetitàn”) che mette sotto la lente di ingrandimento, attraverso un ritratto impietoso, i moltissimi difetti e i pochissimi pregi che contraddistinguono il suo populismo di sinistra. L’indubbio appeal della sua leadership consiste nella capacità di sintonizzarsi istintivamente con la parte maggioritaria (per lo più rurale) della popolazione degli Have-not (i diseredati) che da lui si sentono compresi e rispettati. Tant’è vero che i suoi sostenitori, contadini, poveri e anziani, lo vivono come “il primo leader nazionale che dal 1930 ha dimostrato di volersi seriamente occupare di loro”.

Ovviamente, visti i risultati pratici delle sue politiche dissennate in campo economico, i suoi detrattori, altrettanto numerosi, lo ritengono un incompetente demagogo che rischia di far arretrare il Messico al suo inglorioso passato dittatoriale pre-democratico. Il redde rationem sulla sua politica (che, tuttavia, non rimette in discussione il suo incarico presidenziale giunto soltanto a metà mandato) è fissato per il 6 giugno prossimo, in occasione della più importante tornata elettorale di mid-term, che vedrà il rinnovo di 15 governatori, di 30 su 32 assemblee parlamentari statali e di migliaia di sindaci. L’esito avrà effetti permanenti sul destino politico dell’attuale presidente messicano. Nella sua visione delle cose, infatti, i cittadini si dividono in due gruppi: il popolo che lui rappresenta e l’élite responsabile di tutti i mali del Paese.

E con quali argomenti López Obrador ha inteso conquistare l’anima popolare? Tre, in buona sostanza: aumento delle pensioni, un ampio programma formazione-giovani generosamente finanziato dallo Stato, aiuti agli agricoltori per piantare nuovi alberi. Poiché, come noto, la demagogia social-populista si nutre di incompetenza (l’Italia dei Cinque Stelle ne sa qualcosa, con un Reddito di cittadinanza che ha lasciato così com’era la disoccupazione giovanile!) anche le riforme “giuste” naufragano miseramente, se non accuratamente progettate e implementate.

Così, all’effetto pratico, gli agricoltori messicani tagliano i vecchi alberi sani per piantarne di nuovi e riscuotere il sussidio (del resto, la famosa “Pac”, Politica agricola comune, ha fatto anche di molto peggio!); il programma formazione-giovani si è rivelato un vero disastro, dato che nessuno controlla i risultati dei relativi processi formativi, ovvero se i giovani soggetti beneficiari dei sussidi abbiano effettivamente imparato qualcosa al termine del ciclo di apprendimento. Per di più, la stessa filiera della formazione-lavoro si contraddistingue per le usuali ruberie degli addetti ai lavori! A suo dire, nel voler realizzare queste sue riforme, il Presidente persegue una… volontà divina, mentre i suoi oppositori sono, ovviamente, schierati con il Maligno per impedirglielo! La stampa ancora libera che si oppone e denuncia questa sua improbabile visione escatologica viene minacciata di morte dai suoi più fedeli sostenitori. Come si vede, nulla di nuovo sotto questo cielo, visto il fulgido esempio delle autocrazie social popolari di Cina, Russia e Turchia. Tuttavia, sono in molti a rimanere affascinati dalla sua visione francescana.

López Obrador, infatti, conduce una vita irreprensibile e austera (ben al contrario del suo collega Maduro), onde per cui il presidentissimo ha nell’ordine: venduto l’equivalente messicano dell’Air Force One, preferendo ostentatamente volare in classe economica su voli di linea; si è dimezzato lo stipendio presidenziale, obbligando gli alti burocrati a fare lo stesso, senza mai pretendere di superare il tetto stipendiale fissato per il presidente. Per dire: qui in Italia Mario Draghi, trovandosi a corto di manager disponibili, sta cercando di rimediare a una misura simile voluta nel 2012 dal Governo di Mario Monti!

Qual è il vero pericolo, a questo punto, insito nella scadenza elettorale del 6 giugno? Semplice: in futuro il rischio (assai improbabile, per ora, dato che la Camera Alta non va a rinnovo e lì il presidente non ha attualmente la maggioranza!) è che López Obrador ottenga i due terzi dei seggi in entrambi i rami del Parlamento, necessari a cambiare la Costituzione. Quindi, se tra pochi giorni gli dovesse andar male, come di certo accadrà, il presidente potrebbe “raddoppiare gli sforzi per trasformare il Paese con mezzi extra legali, facendo appello al malcontento dei ceti più poveri”. Conclusione: il Messico resterà ancora più diviso di prima tra un Nord dinamico e benestante, ben integrato al sistema industriale statunitense, e un Sud sempre più arretrato, rancoroso e rivendicativo. Forse è meglio ricordare il tutto quando si parla di populismo “buono”!


di Maurizio Guaitoli