Myanmar: la lotta per la Libertà

mercoledì 31 marzo 2021


Sabato 27 marzo nel Myanmar si è ripetuta la macabra scena dei massacri perpetrati dalle Forze armate birmane, il famigerato Tatmadaw, contro una tormentata popolazione che manifestava in opposizione ad un regime liberticida. Le reazioni internazionali sono state di enorme indignazione in quei Paesi dove la democrazia e la libertà sono i pilastri della società (almeno in teoria), meno indignati o quasi indifferenti, invece, le reazioni in quegli Stati dove la democrazia e conseguentemente la libertà, non sono contemplate.

Tuttavia, tali risposte e le conseguenti pressioni sul regime birmano, non hanno avuto il minimo effetto sul Tatmadaw, incardinato come è nella tradizionale convinzione di rappresentare l’unico sistema autorizzato a garantire la stabilità del Paese. Così lo sdegno causato dal massacro di questo sabato funesto ha portato i capi di Stato maggiore di Paesi Bassi, Australia, Canada, Germania, Italia, Nuova Zelanda, Sud Corea, Giappone, Regno Unito e Stati Uniti a pubblicare, domenica 28 marzo, un raro comunicato congiunto nel quale denunciano l’uso mortale della forza su persone inermi da parte dell’esercito birmano e dei servizi di polizia.

Dopo il colpo di Stato del primo febbraio, sono state uccise almeno 520 persone, alcune delle quali da cecchini che hanno messo la loro “firma”, freddando alcuni manifestanti con precisi colpi alla testa. Nel Myanmar, il 27 marzo, non è una data qualsiasi, infatti ricorre “l’Army Day”, ovvero la Giornata delle forze armate, dove si commemora il giorno in cui, nel 1945, Aung San, padre di Suu Kyi (premio Nobel per la Pace), si ribellò contro gli occupanti giapponesi; la giornata è celebrata con una imponente parata militare. Immaginando lo spirito autoreferenziale del Tatmadaw, possiamo ipotizzare che questo giorno particolare sia stato, per il regime militare, una ghiotta occasione per rafforzare la propria autorità ed esercitare una pressione indiscriminata contro chi attenta alla stabilità del Paese. Infatti, la violenza dispiegata dalle forze di sicurezza birmane in questo terribile sabato, oltre che fosse prevista, era anche temuta. Così il “generale anzianoMin Aung Hlaing, anche capo del Tatmadaw, artefice del golpe e dittatore, ha voluto dimostrare che il nuovo potere è determinato a restare al comando e che ha la capacità di controllare il Paese. Tuttavia, nonostante la feroce oppressione, il generale Hlaing e il suo entourage sono riusciti a inimicarsi anche quelle fasce di società civile che tradizionalmente indugiava nella passività, non sbilanciandosi a fare una scelta “politica” contraria al regime.

Le forti repressioni di questi ultimi tempi hanno fiaccato lo spirito dei manifestanti e diminuito anche il loro numero, ma le proteste contro il regime dittatoriale continuano. Tra questi gruppi di contestatori il più determinato è quello denominato “generazione Z” o giovane generazione; questi ragazzi e ragazze si difendono con il proprio arsenale artigianale fatto di archi, frecce e molotov. Ma finora il loro obiettivo principale sembra essere quello di creare fumo, per confondere le forze di sicurezza che aprono il fuoco sui civili. Sono comunque dotati di quello spirito di ricerca della Libertà, che oggi pare poco presente nella gioventù occidentale. Infatti hanno il coraggio di mettere in gioco la propria vita per la democrazia.

Sabato 27, nelle 41 città in cui sono state organizzate le proteste, il bilancio delle vittime ha raggiunto il numero di cento, assegnando a questa giornata il tragico primato di “giorno più mortale dal colpo di Stato”. Nella carneficina hanno perso la vita quattro bambini di età compresa tra 5 e 15 anni. Sempre lo stesso giorno, nella capitale Naypyidaw, dove le strade larghe e vuote, costruite dalle precedenti dittature militari all’inizio di questo secolo, fanno da cornice ad un palcoscenico tipico dei regimi autoritari, il generale Min ha pronunciato, di fronte alle sue truppe che marciavano a passo d’oca, una “orazione” con il consueto lessico farcito di “semantica orwelliana”. Ovvero “l’esercito è ansioso di stare mano nella mano con l'intera nazione, per proteggerla”, specificando che “le azioni violente che minacciano la stabilità e la sicurezza del Paese sono inappropriate”.

Osservando quanto può valere per alcune popolazioni “orientali” la Libertà, si resta amareggiati nel vedere un popolo “occidentale” indifferente quando della Libertà è privato. Forse si dovrà ammettere che il modello occidentale – che vede insieme lo Stato di diritto più l’economia di mercato – sembra avviato verso il collasso; o come ha scritto Julius Evola oltre sessanta anni fa, si sta assistendo a “Il tramonto dell’Occidente” nella cornice del “lessico orwelliano”.


di Fabio Marco Fabbri