lunedì 1 marzo 2021
La decolonizzazione europea delle ex colonie africane inizia suppergiù intorno al 1960. I governi di Francia, Portogallo, Spagna, Belgio, Olanda e Gran Bretagna abbandonano quel continente che potrebbe contenere per dieci volte l’Europa. Data simbolo di quella decolonizzazione, per certi peggiore e selvaggia più della colonizzazione, è quel 30 giugno del 1960 che simboleggia la nascita dello stato libero del Congo. Pochi sanno che, fino a quella data, gli indigeni erano in quel vasto territorio (il Congo potrebbe contenere tre volte la Francia) ritenuti proprietà belga, veri e propri strumenti per l’estrazione del caucciù (la gomma naturale) o dei vari minerali preziosi: a metà ‘900 c’era ancora la schiavitù in Congo, ma col Belgio la Società delle Nazioni era sempre stata tanto permissiva. Decolonizzare, abbandonare l’Africa, era il gesto formale di civiltà democratica della Vecchia Europa. Nei fatti le corone d’Europa e le multinazionali francesi mantenevano in mano a privati belgi, francesi, olandesi ed inglesi privative, diritti estrattivi, servitù d’uso… insomma le commodity. Col tempo (e dal 1960 sono passati sessantuno anni) abbiamo iniziato definire commodity il trading internazionale di tutte le materie prime, negoziate sulle più prestigiose borse europee di preziosi e diamanti (le più rinomate sono tutte nel triangolo Amsterdam, Anversa, Londra, insomma dove abitano i decolonizzatori).
Accademicamente, il termine commodity si riferisce alle materie prime: ovvero a quella particolare categoria di beni che viene scambiata sul mercato senza differenze qualitative. Nello specifico, si tratta di beni cosiddetti fungibili: quindi sostituibili nella soddisfazione del bisogno cui sono collegati, indipendentemente da chi li produce. Il termine “commodity” entrato in uso nella lingua inglese intorno al Quindicesimo secolo, in concomitanza con la corsa coloniale, deriva dal francese commodité, ed è utilizzato per indicare un vantaggio o una convenienza. Grazie alle loro caratteristiche di fungibilità, le commodity sono facilmente negoziabili sul mercato, e possono essere utilizzate come solida base per i diversi strumenti finanziari, anche per giustificare il conio di moneta elettronica e virtuale. Infatti, i “commodity bond” sono obbligazioni il cui valore di rimborso di capitale ed interessi è indicizzato alla quotazione di una certa materia prima: caucciù, diamanti, petrolio, oro, platino, e con oscura contrattualistica anche esseri umani e loro derivati.
Le commodity si dividono in “Soft” ed in “Hard”: le prime derivano dal settore agricolo e dall’allevamento, come avena, farina di soia, frumento, mais, olio di soia, soia, cacao, caffè, cotone, legname, succo d’arancia, tabacco, zucchero, bovini, suini; le seconde sono oro, platino, argento, palladio, alluminio, cobalto, nickel, rame, zinco, molibdeno, acciaio, stagno, petrolio, energia elettrica. Oggi in Nord America le commodity vengono scambiate e compravendute al Chicago mercantile exchange (Cme), al New York mercantile exchange (Nymex, dove sono negoziati il Wti Crude Oil), al Comex (quello dei metalli industriali e preziosi), al Chicago board of trade (Cbot), al Toronto stock exchange (Tsx) è la principale borsa valori del Canada, dove sono negoziati prevalentemente titoli minerari ed energetici.
Negli ultimi trent’anni sono emerse le borse asiatiche di commodity: come la Dalian commodity exchange (Dce, fondata a Dalian, in Cina nel 1993, oggi seconda borsa al mondo per questi futures) e la Multi commodity exchange (Mcx) di Mumbai in India. In Europa le tradizionali Intercontinental exchange (Ice, già nota come International Petroleum exchange, Ipe), la London metal exchange (Lme), l’European energy exchange (Eex), e la Euronext nata a seguito della fusione delle borse di Amsterdam, Parigi e Bruxelles, dove sono negoziati futures ed opzioni. Tutta questa gamma d’investimenti si regge sulla più grande miniera della terra, l’Africa. Ed è alquanto difficile che raffinati e mollicci aristocratici o borghesi, adusi al galateo di salotti e borse, possano farsi rispettare nel terzo, quarto e quinto mondo senza i servigi di mercenari e sedicenti eserciti rivoluzionari. Così tra i costi estrattivi, e nelle pieghe dei trasferimenti di commodity ed opzioni, s’è di colpo nuovamente impennato il prezzo della sicurezza in Africa. E, per far valere nel continente nero i propri diritti estrattivi, anche i cinesi devono avvalersi delle maggiori aziende di sicurezza e formazione d’eserciti mercenari: ovvero multinazionali mercenarie sudafricane, russe, francesi, tedesche e statunitensi. Le più rinomate e moderne, che hanno abbandonato il cliché del classico soldato di ventura, sono la Wagner group, la Dyck advisory group (Dag), Blackwater, Sttep International, Executive outcomes, Paramount group, Beijing security service, DeWe security. Vendono servizi di sicurezza a multinazionali e a governi di tutto il pianeta, e stanno velocemente togliendo il mercato alle francesi, in cui lavoravano militari congedati dalla Legione.
In questo 2021 l’affare della sicurezza in Africa avrebbe già superato i 50miliardi di euro: per “servizi di sicurezza” i mercenari specificano nel contratto con governi e multinazionali la “rapida soluzione di problemi sul territorio d’intervento”. Quest’ultimo virgolettato sottintende reclutamento di indigeni da formare militarmente, intelligence, sminamento, sicurezza specializzata nel contrasto con forza all’eventuale furto di materie prime, negoziazione di ostaggi, ed ogni tipologia di bersaglio strategico. Attualmente, se escludessimo gran parte del Nord Africa (tranne la Libia) e la Repubblica del Sudafrica, tutto il Continente Nero è da ritenersi area di guerra: vi operano circa un migliaio di eserciti mercenari, rivoluzionari e di liberazione, islamici e, soprattutto, vengono eterodiretti dai professionisti mercenari della guerra. Anche gli Stati africani meno belligeranti interpellano i professionisti della guerra, per combattere quelle che vengono chiamate “guerre ibride”: perché non possono o non vogliono esporsi, o perché forse le combattono contro strutture collegate a multinazionali ed a potenti stati occidentali od orientali. A protezione dell’africana “Via della seta” ci sono mercenari di varie nazionalità, e pare siano i più pagati.
L’Italia non ha soldati di ventura (a parte militari in congedo che si sono arruolati in multinazionali straniere) ma cerca attraverso i propri addetti commerciali di vendere prodotti e tecnologie utili all’estrazione mineraria o progetti ingegneristici in materia energetica e strutturale (dighe, miniere, ponti). Così i diplomatici italiani, impegnati anche in aiuti umanitari, si ritrovano inconsapevolmente nel bel mezzo di conflitti locali per risorse minerarie. Nigeria, Ruanda, Mozambico, Centrafrica, Congo, Libia, Camerun, Sahel… sono terre in cui oggi potrebbe tornare l’adagio “hic sunt leones”. Perché anche gli attuali confini vengono tracciati, per interessi minerari, dagli ex colonialisti europei. Siccome i gruppi etnici indigeni spesso non sono in sintonia con i desiderata dei poteri multinazionali, gli eserciti mercenari operano senza conseguenze penali lo sterminio delle popolazioni: queste ultime non sono censite anagraficamente, e spesso i governi distruggono i censimenti. Questo agevola il commercio d’esseri umani, la vendita di bambini non censiti (cavie umane) a “contractor” di multinazionali chimico-farmaceutiche.
Dietro lo scontro tra “tutsi” e “hutu” in Ruanda c’erano interessi finanziari europei, altrettanto in Rhodesia ed in Zimbabwe. “Divide et impera”, ed ecco gli eccidi tra etnie “hema” e “lendu” nella Repubblica Democratica del Congo. Oggi l’Africa conta anche ricche società di sicurezza autoctone, più il caso dei feroci mercenari nigeriani, o delle milizie del Mali che intervennero dieci anni fa in Libia. Per combattere i gruppi jihadisti del Mozambico, il presidente Filipe Nyusi ha ingaggiato a tre compagnie di mercenari. Faustin-Archange Touadéra, presidente della Repubblica Centrafricana, ha tagliato la testa al toro, e per avere una sicurezza totale del paese ha affidato la sua difesa personale ai russi di Wagner group (un misto gestito da ex Spetsnaz ed ex Armata Rossa anni ‘80). L’Africa è il più grande mercato unico del mondo, è la più grande opportunità per chi vende servizi e progetti. Un tempo quelle terre erano in mano ai governi coloniali, e lì vigeva la stessa legge applicata nelle patrie europee. Oggi l’Africa ha governi fantoccio senza alcun potere sulle proprietà di sovrani europei, multinazionali e signori della chimica e della finanza.
di Ruggiero Capone