Le elezioni americane e decisiva influenza del Covid–19

lunedì 30 novembre 2020


A meno di clamorose sorprese dovute ad un ribaltamento giudiziario delle consultazioni elettorali ad opera della Corte Suprema degli Stati Uniti, sempre possibili, ma ormai molto improbabili, Donald Trump non sarà il presidente per il prossimo mandato che inizierà dal 20 gennaio 2021. Torneranno, quindi, al governo degli Stati Uniti i rappresentanti del Partito Democratico, stavolta guidati da Joe Biden, clamorosamente sconfitti quattro anni fa quando la maggior parte della stampa e degli addetti ai lavori avevano già dato per cento che Hillary Clinton sarebbe stata la prima donna a guidare il Governo degli Stati Uniti. Questa previsione, come sappiamo, è miseramente fallita e le cose sono andate molto diversamente, ma, ben al di là della contrapposizione tra democratici e repubblicani, ciò che rileva maggiormente è che la prima potenza mondiale tornerà ad essere amministrata con politiche totalmente diverse da quelle adottate da Donald Trump nell’ultimo quadriennio della gloriosa storia americana. Questo perché il filo conduttore della sua politica ha messo al centro i cittadini americani e la risoluzione dei problemi interni al territorio americano, senza lasciarsi coinvolgere troppo dall’eccessiva “esterofilia” dei suoi predecessori che hanno progressivamente contribuito a rendere meno sicuro il mondo, soprattutto, in Medio Oriente, in un quadro di politiche espansioniste non sempre indovinate.

In effetti, storicamente, i Governi americani, parlando con simpatia, si sono sistematicamente impicciati un po’ troppo degli “affari degli altri” e un po’ meno degli “affari loro” come, invece, è finalmente avvenuto proprio sotto la guida di Trump, il quale, come detto, si è concentrato maggiormente su questioni interne, mentre i Governi precedenti, sia repubblicani che democratici, hanno fatto della politica estera “interventista” un caposaldo e ciò è accaduto, in particolar modo, dopo la Seconda guerra mondiale ed era anche comprensibile che accadesse atteso che, all’interno del “Patto Atlantico”, molti stati erano fedeli agli Stati Uniti e la politica interventista serviva anche a controllare e limitare la sfera d’influenza dei paesi fedeli al “Patto di Varsavia”, cioè, le nazioni filosovietiche. Tuttavia, in molti casi le ingerenze americane negli affari degli altri Paesi non hanno avuto alcuna ragione giustificativa, la storia è piena di esempi del genere ed uno dei casi più eclatanti si ebbe quando il repubblicano George Walker Bush decise di bombardare l’Iraq nel 2003 per andare alla ricerca di inesistenti armi di distruzione di massa, secondo lui, in mano a Saddam Hussein, con cui avrebbe distrutto il mondo, ma che, ovviamente, non furono mai rinvenute. E quanto accaduto in Iraq non è stato certamente un caso isolato, ma si è ripetuto spesso visto che, dal Medio Oriente fino all’Estremo Oriente, passando per i paesi dell’America Latina, i principali episodi di tensione internazionale riguardanti Stati disseminati in ogni angolo del pianeta, sono stati spesso risolti anche con il contributo, più o meno ufficiale, del Governo americano, il quale, in qualche caso, ha dovuto usare anche le maniere forti per ricondurre all’obbedienza nazioni “indisciplinate”, contribuendo, alla lunga, a creare una situazione di instabilità internazionale. Infatti, proprio questo modo aggressivo di gestire la politica estera ha indirettamente contributo ad alimentare, soprattutto negli anni Ottanta e Novanta, un sentimento anti-americano ed il terrorismo islamico, creando i presupposti della terribile tragedia dell’11 settembre 2001 in cui la popolazione americana pianse circa 3mila vittime per gli attentati di New York. Ma, come sappiamo, la tragedia dell’11 settembre è stata solo la punta dell’iceberg perché gli attentati di matrice islamica sono stati numerosi ed hanno interessato larga parte del mondo diventato meno sicuro, soprattutto, in quelle aree in cui era facilmente strumentalizzatile la loro massiccia presenza militare. Infatti, proprio questa politica interventista ha indirettamente alimentato il sentimento anti–occidentale, anche perché, in alcuni strati della cultura araba, una parte della popolazione locale non ha mai digerito la presenza di militari americani a protezione degli interessi economici americani.

Contrariamente a tutto questo, la politica degli Stati Uniti di Trump ha pensato prevalentemente ad affrontare e a risolvere i problemi degli americani all’interno del perimetro nazionale piuttosto che ad interessarsi troppo di questioni internazionali e tale vistoso arretramento del loro baricentro geopolitico si è recentemente tradotto anche in una sensibile diminuzione dei gravi episodi di terrorismo internazionale, ma ciò è dipeso anche dal fatto che le organizzazioni terroristiche islamiste, nel frattempo, hanno subito ingenti perdite. Particolare importante è che la scelta del Governo americano di una minore ingerenza ha scontentato molti potentati economici perché è stata tolta loro la possibilità di “giocare alla guerra”, nel senso che ci sono stati – e ci sono ancora adesso – numerosi soggetti che si sono arricchiti anche grazie alle oscillazioni borsistiche determinate dagli episodi di intervento militare da parte degli Stati Uniti in alcune aree del mondo e c’è da scommettere che questi potentati economici – americani o di altre nazionalità – non abbiano apprezzato le mancate fonti di guadagno ed è ragionevole ipotizzare che non avrebbero gradito un secondo mandato per Donald Trump. Così come sono state registrate aziende americane che, anni fa, hanno tratto ingenti fonti di guadagno anche grazie alla ricostruzione dei Paesi che le operazioni militari statunitensi avevano appena finito di distruggere. Altro particolare interessante è che la politica estera “soft” di Trump, lungi dal relegare gli Stati Uniti in una posizione di secondo piano, ha consentito di incamerare alcuni importanti successi dal punto di vista diplomatico e questa strategia si è distinta per provare a mettere pace e non per alimentare malcontento anti–americano in giro per il mondo. Infatti, nonostante la poca dimestichezza con gli affari internazionali, la politica estera di Trump ha fatto abbassare la cresta al dittatore nordcoreano Kim Jong Un che rappresentava una seria minaccia nucleare per il mondo intero. Inoltre, Donald Trump è stato anche l’intermediario degli accordi di pace tra Israele ed una parte importante del mondo arabo, composta dal Bahrein e dagli Emirati Arabi, i recentissimi “Accordi di Abramo”, firmati lo scorso 15 settembre, che dovrebbero normalizzare i rapporti, non solo commerciali, tra gli stati direttamente coinvolti, garantendo maggiore sicurezza in tutta l’area mediorientale, notoriamente diventata la polveriera del mondo.

Con riferimento agli affari interni, la politica del presidente Trump, nonostante abbia commesso qualche errore, ha comportato un abbassamento delle imposte dal 35 per cento al 21 per cento e la disoccupazione è stata portata ai minimi storici secondo i dati ufficiali di fine 2019. Il Pil nel primo trimestre 2020 è stato pari al 33 per cento, con un rapporto deficit–Pil pari al 102 per cento, mai così alto dal secondo dopoguerra anche per via degli aiuti erogati dalla contrazione economica dovuta al Covid-19. La politica fortemente protezionista nei confronti della Cina e la conseguente contrazione dell’export è stata fronteggiata con sussidi statali ad hoc. E a conferma che le cose non stessero andando poi così male per Trump, almeno fino allo scorso mese di marzo, cioè, fino allo scoppio della pandemia da Covid-19, la rielezione di Trump era data talmente per scontata che il Partito Democratico ha puntato su di un sicuro cavallo perdente, il quasi ottantenne Joe Biden, visto che, quando fu scelto in occasione del Super Tuesday del 3 marzo, in quel momento, sembrava un’impresa quasi impossibile disarcionare il lanciatissimo Donald Trump, ma il Covid-19 ha completamente sparigliato le carte e, quindi, Trump ha perso le elezioni pur avendo riportato il gradimento di oltre 70 milioni di americani. Ma si tratta di una sconfitta determinata anche dall’intervento della pandemia, che forse, in alcune fasi, poteva anche esser gestita diversamente dallo sconfitto, ma l’esito delle consultazioni è indiscutibilmente dipeso dall’umore degli elettori fortemente provati dal Covid-19, anche se non è facile individuare precise responsabilità perché la causa maggiore ha scombussolato tutto. Questa considerazione non toglie alcuna legittimazione ai vincitori, perché bisogna rispettare al massimo la decisione del corpo elettorale americano. Tuttavia, la vittoria di Joe Biden è stata anche il frutto di un diffuso malessere pandemico che, probabilmente, ha fatto la differenza.

Con riferimento al “suprematismo bianco” che rappresenta una parte del consenso del presidente uscente, i media americani ed internazionali hanno insistito molto su questo fatto denunciando l’eccessiva vicinanza di Trump a posizioni razziste che sono state più volte riprese anche nelle manifestazioni di protesta sorte dalle violenze che la polizia americana, lo scorso giugno, ha riservato a George Floyd, uccidendolo. Premesso che bisogna prendere le distanze da qualunque episodio di razzismo ovunque si verifichi, in America come in qualsiasi altra parte del mondo, tuttavia, va anche ricordato che sono oltre 150 anni che, in alcune aree degli Stati Uniti, sono presenti inammissibili discriminazioni tra la popolazione bianca e la popolazione nera e va anche aggiunto che, già nel 1861, la Guerra di secessione americana scoppiò proprio per divergenze connesse allo schiavismo, che veniva fortemente impiegato negli Stati confederati del Sud mentre era mal digerito dagli Stati dell’Unione del Nord e la peculiarità fu che non si trattò di un conflitto “neri contro bianchi”, ma “bianchi contro bianchi”. Inoltre, in alcuni Stati americani, ancora nei non lontanissimi anni Sessanta, costituiva reato sposarsi tra persone dal diverso colore della pelle, per cui è evidente come si tratti di un problema inscindibilmente connesso ad una parte della società americana rispetto al quale non si può dare la colpa a Donald Trump se ancora oggi, nel 2020, la polizia americana utilizzi le maniere forti nei confronti delle persone di colore che vengono arrestate, sebbene non vadano mai forniti alibi ai comportamenti violenti. Mentre è legittimo domandarsi, lo fanno in pochi, in realtà, come mai negli Stati Uniti ci siano ancora così tanti episodi di intolleranza razziale nei confronti della popolazione di colore nonostante gli Stati Uniti medesimi abbiano avuto, per due mandati, quindi, per otto anni, un presidente di colore, Barack Obama, padrone della Casa Bianca dal 2008 al 2016. Non è che sia colpa sua, ovviamente, ma questo particolare serve semplicemente a capire come nemmeno sotto la sua guida questo grande paese abbia avuto la forza per superare la terribile ingiustizia sociale che si trascina da secoli nei pur civilissimi Stati Uniti d’America.

Adesso l’errore che non deve assolutamente commettere Donald Trump è di non riconoscere la sconfitta elettorale non rispettando la Costituzione americana – ma sembra che abbia deciso di farsi da parte il 14 dicembre, il giorno in cui i grandi elettori esprimeranno ufficialmente il loro voto – perché, diversamente, sarebbe un brutto modo per rovinare ciò che ha fatto di buono in questi quattro anni. Anche se non tutte le idee di Trump sono condivisibili, come, ad esempio, quella sulle condizioni climatiche del mondo, e molti sono stati gli errori, anche comunicativi e comportamentali che lo hanno contraddistinto, tuttavia, lascia una nazione in buona salute, è stato coraggioso e si è messo di traverso rispetto a tutti i tentativi di normalizzazione che ha dovuto subire. La sua forza è stata la sua indipendenza determinata anche dalla sua personale ricchezza economica, non perché gli uomini ricchi siano necessariamente dei buoni politici, ma semplicemente perché nel suo caso gli ha permesso di conservare piena autonomia decisionale in una situazione molto particolare, in cui aveva quasi tutti contro perché ha sommato al grande potere che ha sempre gestito da vecchio imprenditore newyorkese, quello ancor più importante derivatogli dall’essere presidente degli Stati Uniti, per cui ha avuto tutti fucili spianati contro dal primo giorno del suo mandato, come era anche giusto che fosse. Sovviene, in proposito, un suggestivo insegnamento del grande filosofo illuminista svizzero Jean Jacques Rousseau che, nella sua celeberrima opera “Le confessioni”, scritta a Parigi, nel 1782, ha saggiamente rappresentato che: “Il denaro che si possiede è strumento di libertà, mentre il denaro che si insegue è strumento di schiavitù”. In questo senso, si può ragionevolmente ipotizzare che abbia dato prova di essere un uomo libero, nonostante i limiti umani che, da sempre, caratterizzano ed accomunano gli esseri umani.


di Ferdinando Esposito