lunedì 30 novembre 2020
Mentre si calmano le acque dopo gli ultimi combattimenti in Transcaucasia potremmo assistere al profilarsi di un disastro peggiore che coinvolge più parti dell’arco d’instabilità dell’Asia occidentale che va dal bacino del Caspio al Mar Mediterraneo.
Rammentiamo brevemente cosa è successo.
A un certo punto, nel 2018, il presidente turco Recep Tayyip Erdogan si offrì di aiutare il suo omologo azero Ilham Aliev per riconquistare l’enclave dell’Alto Karabakh conquistata dalla vicina Armenia agli inizi degli anni Novanta, subito dopo la disintegrazione dell’Impero sovietico. Un programma di armamento e di addestramento accelerato dell’esercito azero appena creato venne lanciato da Ankara, e finanziato con le crescenti entrate petrolifere dell’Azerbaijan. Il fatto che il cosiddetto Trio di Minsk, costituito da Stati Uniti, Francia e Russia, garanti dello status quo, avesse perso interesse per l’intera faccenda permise a Erdogan di mettere sul piede di guerra la nuova e ancora fragile Repubblica azera con l’aiuto di più di un centinaio di consiglieri turchi e di circa 300 jihadisti siriani facenti parte di una Legione straniera turca.
Nel frattempo, i successivi governi armeni, ritenendo che la Russia fosse sempre lì a proteggere l’Armenia, come aveva fatto dal XVIII secolo, avevano trascurato le esigenze di difesa della nuova nazione. Poco più di un mese di combattimenti portò gli armeni sulla difensiva, per poi essere sconfitti su vari fronti. Ma quando gli alleati azeri e turchi pensavano di avere in mano la vittoria la Russia intervenne convocando a Mosca i leader di Baku ed Erevan per accettare un confuso cessate-il-fuoco che, pur fermando i combattimenti, lasciò intatte le cause profonde del conflitto. In modo tipico delle potenze opportuniste, la Russia colse l’occasione per estendere la propria presenza militare, già significativa in Armenia, anche in Azerbaijan. Secondo l’accordo di Mosca, una forza “di pace” russa avrebbe assunto il controllo della linea del cessate il fuoco e dei confini dell’Azerbaijan e dell’Armenia con l’Iran.
Nel complesso, gli azeri non hanno guadagnato molto. La maggior parte dell’enclave contesa, in particolare la sua capitale Stepanakert (Khan Kandi in azero) rimane fuori dal loro controllo, mentre una buona parte del loro territorio, soprattutto la rotta terrestre tra l’Azerbaijan vero e proprio e la sua enclave “autonoma” di Nakhichevan, ricade sotto il controllo russo.
L’Armenia perde sei insediamenti mentre almeno la metà della popolazione di etnia armena dell’Alto Karabakh ha scelto di fuggire, spesso bruciando i propri villaggi. Peggio ancora, Erevan ora dovrà consultare Mosca e obbedirle, prima di tentare qualsiasi rivincita in futuro. Il messaggio è chiaro: la Transcaucasia è stato un protettorato russo per due secoli e sta divenendo nuovamente una fascia protettiva che dipende militarmente da Mosca.
Tutto ciò potrebbe ricordare ciò che Putin ha fatto in alcuni degli altri cosiddetti “vicini” della Russia. Ha annesso la penisola di Crimea e si è ritagliato un feudo a Donetsk nell’Ucraina orientale. Ha annesso l’enclave georgiana dell’Ossezia meridionale e ha creato un altro feudo in Abkhazia. Ha un feudo simile nella Moldova orientale, sotto protezione russa, e fa sentire il fiato sul collo alla Lettonia con un dispiegamento militare.
Eppure, Putin potrebbe essere uno dei perdenti in questo gioco letale.
Per cominciare, il mini-successo che [Erdogan] ha ottenuto ai danni dell’Armenia potrebbe aver stuzzicato l’appetito del presidente turco per ulteriore conquiste. La stampa pro-Erdogan in Turchia fa una chiassosa propaganda in merito alla “vittoria nel Caucaso” mostrandola come la prima volta, dalla fine dell’Impero
ottomano, in cui i turchi sono riusciti a “liberare” una parte del mondo musulmano dal dominio degli “infedeli”. Quarantotto ore dopo il cessate-il-fuoco, Erdogan ha chiesto al Parlamento turco di consentirgli di inviare un corpo di spedizione in Azerbaijan. Una presenza militare turca in Transcaucasia potrebbe comportare il rischio di uno scontro diretto tra Mosca e Ankara, già in conflitto in diversi altri luoghi, in particolare Siria, Libia e Kosovo.
Peggio ancora per Putin, Erdogan ha già dimostrato di voler coinvolgere la sua Legione straniera di jihadisti nella protezione delle “terre musulmane”. Il quotidiano moscovita Nezavisimaya cita esperti militari russi, i quali avvertono che il presidente turco potrebbe aver gli occhi puntati sull’agitazione dei tartari di Crimea già scontenti dell’annessione russa. Una recente visita da parte di un gentiluomo che afferma di essere l’erede al trono della Crimea per conto della dinastia tartara Devlet Ghiray, che regnò a Bachčisaraj in epoca medioevale, è stata pubblicizzata al massimo ad Ankara. (I tartari di Crimea vennero trasferiti in massa in Siberia da Stalin, ma fu loro consentito di tornare sotto Krusciov, negli anni Cinquanta.)
La regione è piena di terre musulmane da “liberare” dal controllo degli “infedeli” russi, in particolare il Daghestan, la Cecenia, l’Inguscezia e la Karachay-Cherkessia, per non parlare delle più popolari Repubbliche autonome del Tatarstan e del Bashkortostan.
Più nell’immediato, le ambizioni di Erdogan potrebbero minacciare l’esistenza stessa dell’Armenia. I turchi accusano gli armeni di aver pugnalato alla schiena l’Impero ottomano durante la Prima guerra mondiale, essendosi schierati con la Russia. Non è un caso che Ankara abbia fatto rivivere la memoria della cosiddetto Khanato di Erivan (Yerevan in armeno), un mini-Stato sotto un sedicente khan turco che conobbe una breve esistenza durante il periodo del declino iraniano sotto la dinastia Qajar.
Diversi giornali moscoviti affermano che la crescente ambizione di Erdogan è pericolosa sia per la Russia sia per l’Armenia.
Mischiando il suo jihadismo in stile Fratelli Musulmani con temi panturchi che richiamano Enver Pasha, Erdogan spera di rimpiazzare la narrazione di Ataturk con una nuova intrisa di nazionalismo religioso. E non è un caso che lui stia anche affilando la sua retorica antioccidentale e rafforzando i legami con i Lupi grigi, un gruppo panturco bandito dall’Unione Europea perché considerato “un’organizzazione terroristica”. I “Lupi grigi” sognano un impero turco che si estende dai Balcani all’Asia centrale. Nel loro libro più amato, The White Lilies (“I gigli bianchi”), essi affermano che anche i finlandesi e gli ungheresi sono turchi e sarebbero diventati parte dell’impero.
Il caos creato da Putin ed Erdogan in Transcaucasia potrebbe altresì ravvivare il fuoco della militanza armena. Ci sono circa 12 milioni di armeni in tutto il mondo, più di tre milioni nella sola Russia. Nei giorni scorsi, circolavano voci di “volontari” provenienti da varie parti dell’Europa e del Nord America che potrebbero recarsi nella regione a combattere contro il “nemico turco”.
Due decenni fa abbiamo assistito a una tendenza simile quando serbi e croati nella diaspora sono tornati nei Balcani a combattere per i rispettivi fazzoletti di terra. Per quasi tre decenni, fino alla caduta dell’Impero sovietico, l’Esercito Segreto Armeno per la Liberazione dell’Armenia (ASALA) è stato una spina nel fianco di Turchia e Russia.
Oh, e per quanto riguarda l’Iran? Ha perso il confine con l’Armenia e ancora una volta ha come Paese confinante la Russia. L’ultimo episodio ha rivelato che la Repubblica islamica è un Paese senza un vero governo nel senso proprio del termine, e pertanto è uno spettatore irrilevante mentre i “pezzi grossi” combattono.
(*) Tratto dal Gatestone Institute
Traduzione a cura di Angelita La Spada
di Amir Taheri (*)