giovedì 22 ottobre 2020
Era dai tempi dell’Impero Ottomano che non si vedevano i turchi così impegnati contemporaneamente in cinque scenari di guerra. L’esercito turco oggi è operativo in Siria, rappresentato sul fosco palcoscenico libico, pericolosamente invadente nell’area curda a nord dell’Iraq e fomentatore, con la sua flotta navale, della instabilità del Mediterraneo orientale, acque greche e cipriote, dove Ankara chiede una nuova divisione dei confini marittimi e l’accesso ai giacimenti di gas recentemente scoperti e dove i suoi aerei da combattimento tracciano quotidianamente le rotte sopra le isole dell’Egeo.
Mancando per una questione di “geometrie geostrategiche” il lato caucasico, da poco Recep Tayyp Erdogan si è schierato con l’Azerbaigian nella guerra guidata da questa ex Repubblica sovietica contro i separatisti armeni per il controllo della regione del Nagorno-Karabakh. Sotto il controllo azero, il Nagorno-Karabakh è popolato principalmente da armeni di religione cristiana, appartenenti alla Chiesa apostolica armena e che hanno dichiarato la loro indipendenza nel 1991, nonostante la repressione armata dell’Azerbaigian. Dopo un periodo di fragile distensione, dal 27 settembre si sono intensificati i combattimenti nella zona separatista. Il bilancio indicativo riporta oltre 600 morti, di cui circa 80 civili. Così il turco Erdogan, sostenendo l’Azerbaigian uno Stato per storia tendenzialmente laico, ma con il 97 per cento di popolazione musulmana di cui oltre l’85 per cento sciita, si è dichiarato favorevole all’utilizzo della forza, sostituendo la diplomazia con le fregate, con i mercenari e con i droni armati, come da “dottrina” del generale prussiano Carl von Clausewitz (1780-1831) riportata nel suo manuale “Vom Kriege” (“Della Guerra”). Il presidente turco come è sua consuetudine, è restato indifferente agli avvertimenti dell’Unione europea ed ha riposizionato le sue navi nel Mediterraneo orientale. Che il fronte caucasico fosse di estremo interesse per Erdogan lo dimostra la velocità con cui sono stati resi disponibili i mercenari siriani filo-turchi all’Azerbaigian, atteggiamento che rivela l’ottima integrazione, di questi combattenti prezzolati, con l’esercito di Ankara.
La Turchia, nonostante una distratta smentita di Erdogan, ha schierato oltre 1500 mercenari siriani in Azerbaigian; il dispiegamento di questi battaglioni ausiliari ha limitato la presenza dell’esercito nazionale turco, che evitando un coinvolgimento diretto dei propri soldati, ha scongiurato numeri importanti di perdite di militari. Una tale organizzazione mostra come l’integrazione dei mercenari sia ormai strutturale alle forze offensive turche, esse combattono al fianco dell’esercito e lo sostituiscono, in questo caso, sul fronte azero. Questa integrazione, al di là del suo impatto sui conflitti in corso, rappresenta un nuovo fronte in un’area, quella situata all’incrocio tra l’Europa orientale e l’Asia occidentale, confinante con il Medio Oriente, dove le crepe della destabilizzazione socio-politica si approfondiscono giornalmente.
La motivazione che portò alla creazione dei “battaglioni ausiliari” siriani filo-turchi fu successiva al primo intervento di Ankara in Siria, avvenuto nell’agosto 2016 nell’operazione “Euphrates Shield” contro l’Isis, nell’area di confine a ovest dell’Eufrate. Il vero obiettivo turco, mai reso ufficiale e tenuto segreto, di questa offensiva anti jihadista, era di impedire alle forze curde di creare una continuità di controllo a sud del confine turco, tra la loro roccaforte ad Afrin e la Siria nord-orientale. In questa occasione l’esercito turco, reduce da una serie di fallimenti, venne sconfitto dai curdi accusando pesanti perdite di uomini e mezzi. Questo affronto portò lo Stato maggiore turco, nel 2017, a riorganizzare gli ausiliari siriani nell’Esercito nazionale siriano (Ans), celando maldestramente dietro il termine “nazionale” la subordinazione ad Ankara. Oggi nei ranghi dell’Ans coabitano raggruppamenti dell’Esercito siriano libero (Fsa) che è la principale spina nel fianco dell’insurrezione anti Assad, e milizie strutturate con l’esercito turco. Fino al 2019 la brigata Suleiman Shah e la divisione Sultan Mourad (nomi che richiamano i fasti ottomani), due milizie turkmene, sono state in prima linea sia nelle battaglie contro i curdi, che contro l’esercito di Assad. In queste operazioni, i mercenari siriani hanno patito perdite dieci volte maggiori dei loro patrocinatori turchi. Artefici di numerose atrocità negli ultimi giorni del 2019, ma anche oggi contro gli armeni, i miliziani dell’Ans hanno operato in Libia per combattere, sotto l’egida della Turchia, contro il generale cirenaico Khalifa Haftar. Il loro reclutamento avviene attraverso le loro milizie affiliate ad Ankara, ciò facilita un contratto privato con una società di sicurezza che maschera i servizi segreti turchi.
Oggi, gli aspiranti mercenari sono numerosi, con una paga dieci volte più alta di quella percepita in Siria; accedono minori con documenti falsi e arrivano sul luogo del reclutamento con voli civili, per poi essere destinati al “fronte” dove circa il 6/7 per cento rimane sul campo. Nel caso dell’Azerbaigian, i mercenari sono stati trasferiti in pochi giorni, contrariamente a quanto avvenuto in Libia dove sono stati necessari circa sei mesi. Le perdite accusate dai mercenari in Arzerbaigian ammontano a circa 130 unità, il doppio del tasso registrato in Libia.
Come vediamo, siamo di fronte ad uno scenario che va dal Caucaso alla Libia, dove “recitano”, con articolate posizioni, Russia, Francia, Iran (sciiti), Israele (droni) e ovviamente Armenia, Nagorno Karabakh, Arzerbaigian, dove va in scena la privatizzazione e l’esternalizzazione della guerra, e dove la ferocia dei combattimenti e la disinvoltura di Erdogan mostrano il ruolo di “carne da cannone” svolto da questi ausiliari siriani.
di Fabio Marco Fabbri