martedì 6 ottobre 2020
Bombe a grappolo caricate su missili, droni e aerei da combattimento, centinaia di estremisti “mercenari” siriani, minacce e disinformazione: dopo Siria e Libia, la Turchia di Recep Tayyip Erdoğan porta guerra anche nel Caucaso, schierandosi come belligerante a tutti gli effetti al fianco dell’Azerbaijan nella ripresa del conflitto armato con l’Armenia per la regione del Nagorno-Karabakh. La scusa sono i legami di “fratellanza” etnica e linguistica con la popolazione azera, un pilastro ideologico dell’ultranazionalismo turco, che Erdoğan continua a fomentare dando vita a una miscela letteralmente esplosiva con l’estremismo islamista dei Fratelli Musulmani, di cui il sultano-presidente-dittatore si ritiene, a ragione, leader maximo a livello mondiale.
Non si tratta di schierarsi a favore dell’Armenia, ma non si può non tenere conto del fatto che l’Azerbaijan, Paese dal record di democrazia interna tutt’altro che brillante, stia facendo da trampolino di lancio per l’ennesima disavventura della politica estera guerrafondaia di Erdoğan, seppure sulla base di interessi particolari relativi al Nagorno-Karabakh che possono essere considerati legittimi (come, d’altro canto, sono legittimi quelli del popolo armeno, di cui peraltro la Turchia si ostina a non riconoscere il genocidio perpetrato dagli “ottomani”). La questione è complessa, coinvolgendo in un intreccio diplomatico geopolitico Russia, Iran, Europa e Stati Uniti.
Erdoğan ha così aperto un nuovo fronte caldo della sua guerra mondiale. Quando dice che il conflitto nel Caucaso proseguirà fino alla fine, ovvero fino al ritiro dell’Armenia dal Nagorno-Karabakh, si propone un obiettivo massimo per raggiungere quello intermedio di stabilire una presenza militare permanente della Turchia nei territori contesi, similmente a quanto già ottenuto in Siria e in Libia. Mentre con ciò rafforza la propaganda sul fronte interno, dove sta sempre più pericolosamente accentuando i suoi tratti di legittimazione divina, come se fosse un nuovo profeta incaricato di difendere la nazione “eletta” turca dai complotti degli “infedeli” che assediano il Paese e vogliono escluderlo dal mondo, come dichiarato recentemente.
Una narrativa, questa, con cui Erdoğan intende esternalizzare ogni responsabilità per il tracollo inarrestabile del valore della moneta turca e per l’aumento altrettanto inarrestabile dell’inflazione e della disoccupazione, frutto amaro delle politiche economiche dissennate praticate dallo stesso Erdoğan che stanno spingendo ancora più giù le ginocchia già a terra della popolazione. Una popolazione divisa, tra coloro che credono ciecamente alle sue bugie e manipolazioni, e coloro che resistono a un regime sempre più repressivo, che prosegue nel riempimento delle carceri di prigionieri politici e dissidenti, contando d’indurre nei turchi una crescente paura di opporsi alla deriva autoritaria e fondamentalista del Paese.
Erdoğan è in campagna elettorale permanente in vista delle elezioni presidenziali fissate, per il momento, al 2023. Non vuole altri incidenti di percorso come accaduto a Istanbul e Ankara, dove l’ambita carica di sindaco non è più nelle mani del suo partito. Gridando che la “Turchia interverrà ovunque c’è una minaccia ai propri interessi”, Erdoğan vuole dunque spingere lo sguardo della popolazione lontano dai confini del Paese, in modo da far passare inosservato anche lo scandalo scoppiato a causa della gestione truffaldina dell’emergenza sanitaria per il Covid-19, con l’ammissione da parte del ministro della Sanità che i dati dei contagiati forniti finora sono incompleti, poiché non comprendono la massa degli asintomatici.
(fine prima parte)
di Souad Sbai