martedì 19 maggio 2020
Il 4 maggio scorso, durante un briefing sul coronavirus, il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan ha usato l’espressione molto sprezzante, “i resti della spada”: “Non permettiamo ai resti della spada nel nostro Paese”, egli ha dichiarato, “di tentare di svolgere attività (terroristiche, ndr). Il loro numero è diminuito, ma molti esistono ancora”.
L’espressione “i resti della spada” (kılıç artığı in turco) è un insulto comunemente usato in Turchia che spesso si riferisce ai sopravvissuti ai massacri dei cristiani – che ebbero come obiettivo soprattutto armeni, greci e assiri – compiuti dall’Impero ottomano e poi perpetrati dal suo successore, la Turchia.
Essendo Erdoğan un capo di Stato, il fatto di usare pubblicamente l’insulto è allarmante sotto molti punti di vista. L’espressione non solo insulta le vittime e i sopravvissuti dei massacri, ma mette anche a repentaglio la sicurezza della comunità cristiana in calo in Turchia, spesso esposta a pressioni che includono aggressioni fisiche.
Per protesta, Garo Paylan, un deputato armeno del Parlamento turco, ha scritto su Facebook: “Nel suo discorso d’incitamento all’odio di ieri sera, Erdoğan ha usato ancora una volta l’espressione ‘i resti della spada’. L’espressione ‘i resti della spada’ è stata inventata per riferirsi agli orfani come mia nonna che è sopravvissuta al genocidio armeno (del 1915, ndr). Ogni volta che sentiamo quell’espressione, ci fa sanguinare le ferite”.
Altri attivisti e scrittori armeni hanno criticato Erdoğan sui social media. La giornalista Alin Ozinian ha scritto: “Per coloro che non lo sanno, l’espressione ‘i resti terroristi della spada’ significa ‘i terroristi’ armeni che sono sopravvissuti al genocidio e non potevano essere massacrati con la spada. Cosa significa ‘terrorista’? Beh, il significato cambia quotidianamente: potrebbe essere un giornalista, un rappresentante della società civile, uno scrittore, un medico o una madre di un bellissimo bambino. Non vogliono coloro che impugnano le spade”, ha continuato la Ozinian, “ma vogliono vergognarsi dei discendenti dei sopravvissuti di un popolo e di una cultura che sono stati massacrati con la spada”.
L’editorialista Ohannes Kılıçdağı ha scritto: “Si pensi a un Paese che usa attivamente un’espressione come ‘i resti della spada’ nella cultura politica e nel linguaggio. È usata dalle massime autorità. Ma quelle stesse autorità dello stesso Paese affermano che ‘non c’è stato alcun massacro nella nostra storia’. Se non c’è stato, allora da dove viene questa espressione? A chi si riferisce?”.
I crimini che Ankara cerca di nascondere incolpando le vittime sono in realtà fatti storici ben documentati. Nel 2019, ad esempio, gli storici Benny Morris e Dror Ze’evi hanno pubblicato il libro The Thirty-Year Genocide: Turkey’s Destruction of Its Christian Minorities, 1894-1924, che documenta i “massacri di massa perpetrati dall’Impero ottomano e in seguito dalla Repubblica turca contro le minoranze cristiane”. Secondo la loro ricerca: “Tra il 1894 e il 1924, tre ondate di violenza travolsero l’Anatolia, colpendo le minoranze cristiane della regione, che in precedenza avevano rappresentato il 20 per cento della popolazione. Nel 1924, gli armeni, gli assiri e i greci erano stati ridotti al 2 per cento”.
Durante il genocidio, le politiche di annientamento dei perpetratori prevedevano ”stragi premeditate, deportazioni omicide, conversioni forzate, stupri di massa e rapimenti brutali. E un’altra cosa era costante: il grido di battaglia del jihad”.
Come i cristiani, anche la comunità alevita è presa di mira in Turchia per essere “i resti della spada”. L’alleato di Erdoğan, Devlet Bahçeli, a capo del Partito del movimento nazionalista (Mhp), ad esempio, nel 2017, definì il giornalista Abdülkadir Selvi “un resto della spada” per riferirsi alle sue presunte origini alevite. Il giornalista filogovernativo Ahmet Taşgetiren ha poi spiegato l’espressione come segue: “Distruggete un’entità (una società, una comunità religiosa, un esercito) che vedete come ‘il nemico’. Ciò che rimane è un gruppo di persone che sono sopravvissute alla spada e si sono arrese a voi. Quelli sono i resti della spada”.
Selvi ha poi cercato di spiegare il motivo per cui lui non è un “resto della spada”: “Vorrei ricordare Bahçeli: mio nonno, Osman, era un figlio della patria che correva da un fronte all’altro e venne fatto prigioniero nella guerra ottomana-russa. Io sono un discendente dei turchi oghuz; i miei antenati Hasan e Hüseyin, divennero martiri in Yemen. Quest’onore mi basta”.
La spiegazione di Selvi dimostra ancora una volta che avere radici cristiane, alevite o qualsiasi altra radice non musulmana viene visto come un insulto o come un’offesa vergognosa da molti in Turchia. Invece di spiegare perché chiamare qualcuno “un resto della spada” sia inaccettabile, Selvi ha cercato di dimostrare le sue origini “purosangue” turche e la fede musulmana sunnita.
“Oggi, meno del mezzo percento della popolazione turca è cristiana – il risultato di una storia durante la quale i turchi hanno perseguitato i cristiani autoctoni della regione”, ha scritto lo storico Vasileios Meichanetsidis, molti turchi condividono con orgoglio questa storia, senza tentare di affrontarla onestamente o garantire il rispetto per le vittime. Infatti, etichettano erroneamente le vittime come perpetratori, elogiano i criminali e insultano la memoria delle vittime e dei loro discendenti”.
Pertanto, l’uso dell’espressione “i resti della spada” non rappresenta una negazione dei massacri o dei genocidi. Al contrario, dichiara l’orgoglio dei perpetratori. Significa: “Sì, abbiamo massacrato i cristiani e altri non musulmani perché se lo meritavano!”.
Traduzione a cura di Angelita La Spada
di Uzay Bulut (*)