Coronavirus: l’eccessivo afro-allarmismo

mercoledì 6 maggio 2020


Molte ipotesi sono state fatte su ciò che sarebbe accaduto al continente africano al momento che il Covid-19 avesse investito la sua popolazione: ecatombe di infettati e di decessi, crisi economica, una crisi umanitaria che si accavalla ad altre crisi umanitarie, ma ad oggi gli “effetti” della pandemia risultano modeste. È vero che la vastità dell’Africa e la sua frammentazione sociale non facilitano nessun tipo di controllo, ma i dati prodotti dalle organizzazioni sia internazionali che africane che si occupano sia di statistica che di “fenomeni sanitari”, disegnano un quadro interessante e degno di riflessioni.

Per decifrare le ipotesi che spiegherebbero la bassa contaminazione in Africa, bisogna ricordare che sono scorsi più di due mesi dalla individuazione dei primi casi di coronavirus, e da allora la diffusione della malattia sembra progredire più lentamente lì che altrove. I dati ufficiali sull’Africa riportati dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms), dall’Istituto Pasteur di Dakar e dal Cdc, Centro africano per il controllo e la prevenzione delle malattie, mostrano similmente gli stessi risultati: circa 44mila casi, inclusi i guariti, e circa 1700 morti. Se si confrontano con i dati ufficiali, ma nebulosi anche questi, che riportano oltre 3,58 milioni di malati e oltre 252mila morti in tutto il mondo, qualche considerazione deve essere fatta.

Si può tentare di spiegare questa resistenza al virus sicuramente non dal punto di vista della efficienza sanitaria, tuttavia encomiabile visto il contesto: circa 40 centri di diagnostica e cura per Covid-19, e la volontà degli studiosi africani di poter dire la loro in merito, ma dal punto di vista socio-antropologico. In Africa vive circa il 16,80 per cento della popolazione mondiale, ma ha solo l’1,2 per cento dei malati e circa il 0,68 per cento dei morti, dimostrando così una notevole resistenza al Covid-19 e palesando una “peculiarità statistica”. I fattori che vengono presi in considerazione come “discriminanti” possiamo racchiuderli nei seguenti punti: età media della popolazione, bassa densità abitativa, clima, esperienze con le epidemie, spostamenti più limitati, collaborazione transfrontaliera, protezione indiretta dovuta da altri trattamenti, immunità genetica.

Le statistiche avvalorano che il Covid-19 colpisce con effetti gravi le persone con età superiore ai 60 anni; l’Africa ha l’età media di 19 anni ed oltre il 68 per cento della popolazione ha meno di 30 anni. Va ricordato che l’Italia è uno dei Paesi più colpiti, ed ha il 22,6 per cento delle persone di età pari o superiore a 65 anni, rispetto al 5 per cento dell’Africa. Comunque i giovani africani sono colpiti dall’Hiv, dall’Ebola, dalla Sars e soffrono di malnutrizione che li rende più fragili. L’Oms conferma che una bassa densità abitativa favorisce l’isolamento della popolazione, infatti il coronavirus ha avuto forti effetti di contagio nel Nord America e nell’Europa occidentale. In Africa la densità media stabilita è di 42,5 abitanti per kmq (nonostante l’alta densità di abitanti degli stati del Maghreb, del Sudafrica ed delle megalopoli di Kinshasa, Lagos e Onitsha), molto bassa rispetto ai 203 per kmq dell’Italia, e ai circa 21mila abitanti per kmq di Parigi o ai 10mila per kmq dello Stato di New York. Inoltre la limitazione degli spostamenti della popolazione africana può essere un’altra spiegazione razionale; i rischi di contaminazione sono inevitabilmente inferiori se la mobilità è in media inferiore rispetto a quella di molti Paesi avanzati. Nell’elenco dei 50 aeroporti del mondo dove si registra il maggior traffico di passeggeri, in Africa compare solo lo scalo di Johannesburg.

Il clima sicuramente incide, il coronavirus sembra più attivo nella stagione fredda, sembra che non tolleri il calore, la siccità o anche una forte esposizione al sole, infatti da uno studio statunitense del 24 aprile, risulta che l’emivita del virus, cioè il periodo necessario affinché il suo potere di contagio sia ridotto della metà, può passare dalle 18 alle 6 ore se l’umidità ed il calore aumentano, ciò e dimostrato anche dalla diffusione della pandemia nelle aree temperate; inoltre il clima secco, secondo un recente studio britannico, crea meno disturbi respiratori; tuttavia l’Istituto Pasteur di Dakar ha scoperto che il coronavirus si moltiplica anche al caldo.

L’esperienza epidemica africana è sicuramente determinante, quella sull’Ebola soprattutto; la popolazione e il personale sanitario hanno abitualmente affrontano crisi sanitarie, “insegnamenti” portati a frutto, buone pratiche attuate, come l’isolamento dei pazienti, i metodi di rilevazione, ed anche la capacità delle autorità di adottare tempestivamente la chiusura o il controllo delle frontiere.

La collaborazione transfrontaliera secondo l’Oms è efficace, lo scambio sia degli esiti delle ricerche, sia dei vari kit necessari è appurata, contrariamente a quanto accade in Paesi più sviluppati dove dietro una “scoperta” c’è un business e la gelosia fra i vari centri di studio e sperimentazione.

Circa la protezione indiretta da altri trattamenti, l’Oms è cauta; gli studiosi notano coincidenze: ci sarebbero meno contaminazioni da coronavirus nelle aree dove si effettuano vaccinazioni di massa contro la malaria e la tubercolosi con il Bcg (bacillo di Calmette e Guéri). È per questo motivo che l’équipe del Drug Discovery and Development Center (H3D) dell’Università di Città del Capo, ha dato la priorità ai test effettuati con antimalarici.

Immunità “genetica” è un aspetto ancora più controverso: il camerunense Christian Happi, studioso in genomica che lavora tra la Nigeria e Harvard sostiene che: “Gli africani sono esposti a molte malattie, quindi è possibile che il loro organismo reagisca meglio. Gli anticorpi dovranno essere individuati per avere certezze, ma è possibile. Dopo l’Ebola, si è visto che molte persone in Nigeria erano state esposte alla malattia ma non l’avevano sviluppata.

In Africa c’è uno slogan, nato negli Stati anglofoni ed esportato anche con i “barconi” in Europa, che cita: “Il virus è vecchio e freddo e l’Africa è giovane e calda”.


di Fabio Marco Fabbri