giovedì 20 febbraio 2020
In questi tempi difficili le elezioni non riescono a risolvere le problematiche di gestione del potere neanche nei Paesi, cosiddetti, a democrazia avanzata, ma nel caso della Repubblica islamica in Iran diventano, ormai, una insipida farsa.
Il 21 febbraio la teocrazia assoluta di velayat-e faghih al potere in Iran celebra, stancamente, il rito di eleggere i deputati del majlès, tra quei candidati che hanno passato il vaglio del Consiglio dei guardiani, un organo di 12 membri, di fatto alle dirette dipendenze della Guida suprema. I deputati del majlès della teocrazia iraniana, una volta eletti, non hanno alcuna facoltà di approvare ciò che non gradisce la Guida suprema. Tutt’al più il regime usa le elezioni come una foglia di fico allo scopo di legittimarsi; vista la drammatica crisi che attraversa il regime, questa foglia di fico metto più che altro a nudo tutta la debolezza del sistema. Se tutto questo non è drammaticamente ridicolo, cos’è? Secondo l’articolo 28 della legge elettorale del regime i candidati devono, tra l’altro, “praticare, credere e aderire all’Islam e al sistema sacro della Repubblica Islamica” e “dichiarare lealtà alla Costituzione e al principio del velayat-e faqih”.
Parlare di elezioni nella repubblica islamica è arduo; Norberto Bobbio annoverava tre condizioni fondamentali affinché un regime si possa definire democratico: libertà di partecipazione, di critica e di dissenso. Bene, circa la metà dei candidati al majlès di Khamenei, 6.850 su 14.000, sono stati bocciati dal Consiglio dei guardiani, e tra questi esclusi 90 sono attuali membri del majlès. Le carceri iraniane sono colme di persone che hanno criticato il regime o la sua Guida. Inoltre in un regime democratico governa la maggioranza rispettando i diritti della minoranza; nella repubblica teocratica al potere in Iran il diritto è sancito solo dalla discrezionalità della Guida suprema. Quindi né teoricamente né tantomeno praticamente il rito elettorale del regime non ha la benché minima sembianza di elezioni democratiche. In alcun modo si può definire la repubblica islamica al potere in Iran democratica. È una dittatura nemica dell’Iran e degli iraniani e un pericolo per la Regione e non solo.
Dopo il massacro del mese di novembre, in cui sono state trucidate oltre 1500 persone in soli tre giorni, con 4000 feriti e migliaia di arresti, almeno 12mila, sotto la tortura e la minaccia del cappio, chiamare gli iraniani alle urne se non è una drammatica beffa, cos’è? Infatti su molti muri nelle città iraniane si trova la scritta: “Il voto è il cambio di regime!”. Una schiacciante maggioranza della popolazione iraniana crede fermamente che la soluzione dei loro problemi sia il cambio di regime, molti lo esprimono apertamente. Secondo un sondaggio ufficioso circolato negli ambienti governativi l’83 per cento degli aventi diritto al voto non parteciperebbe alle elezioni del regime. Molti tra i prigionieri politici hanno già espresso la loro chiara volontà di boicottare le elezioni farsa. Una battuta circola tra gli iraniani che recita: il ministero degli Interni ha annunciato che la conta dei voti è terminata, ora aspettiamo solo la numerosa partecipazione degli elettori.
Hassan Rouhani, presidente del regime, in queste ultime settimane, dopo aver visto bocciare in massa gli uomini della sua banda, più volte ha parlato di selezioni anziché di elezioni. Le parole di Rouhani, il poliziotto buono secondo le percezioni delle cancellerie occidentali, che parlava in occasione dell’anniversario della caduta del regime monarchico l’11 febbraio, si scagliavano contro il polizotto cattivo, Khamenei, e lo avvertivano del rischio che le elezioni farsa “possano provocare pericolose proteste di piazza”, così come capitò allo Shah nel 1979, decretando la fine di tutti.
Insomma questo regime innaturale e fasullo intende, come altre dittature, costruire l’uomo nuovo; peccato che quest’uomo nuovo è qualche cosa che è già esistito nelle caverne. In Iran sin dal primissimo Novecento c’è una lotta tra chi vuole affermare il despotismo e chi si batte per la democrazia. Uno slogan tra i recentissimi in bocca ai coraggiosi manifestanti nelle strade in Iran recita “Abbasso il despota, sia sciah che mullà!”. Più chiaro di così!
di Esmail Mohades