A chi serve la morte di Soleimani?

martedì 7 gennaio 2020


L’uccisione del generale iraniano Qassem Soleimani, tra i principali attori della “riscossa” contro la “tenaglia” dell’Isis, prevedibilmente ha tolto un altro mattoncino al traballante muro che sostiene il precario equilibrio sociopolitico dell’area irachena e del Vicino Oriente.

Soleimani rappresentava una figura chiave per i riferimenti strategici e politici dell’area ed anche un’immagine influente e di peso politico, per gli interessi della Repubblica islamica iraniana anche oltre il “Golfo”. L’uccisione del generale, anche troppo facile, vista la personalità e lo spessore militare e conseguentemente il livello di protezione di cui era oggetto, apre un’ulteriore fronte di divisone sia tra i Paesi dell’area del Golfo ed i loro “protettori” occidentali, che tra i Paesi arabi di confessione sciita e sunnita.

Il generale sciita iraniano Qassem Soleimani, in “prestito” alla “causa irachena”, è stato l’architetto e lo stratega nella guerra contro l’Isis in Iraq, insieme ad Abu Mehdi al-Mouhandis, leader dei paramilitari filo-iraniani di Hashd al-Chaabi, anche lui deceduto il tre gennaio nell’attentato. La sua eliminazione obbliga il governo della Repubblica parlamentare e federale irachena, che con fatica e con scarsa autorità tiene insieme etnie, religioni e confessioni diverse, a confrontarsi, quasi senza alcuna “arma” ne politica ne di altro genere, con la fondamentale presenza sul proprio suolo di statunitensi ed iraniani, ognuno con ruoli determinanti per la sicurezza del Paese.

Queste forze hanno ottenuto eccellenti risultati nel ricostruire i confini dell’Iraq ed hanno contribuito a bilanciare lo Stato con una distribuzione di cariche che potessero essere garanzia di rappresentatività: infatti il presidente della Repubblica è Barham Ṣāliḥ, un curdo appartenente al “gruppo etnico” più determinante per la sconfitta dei jihadisti nel nord dell’Iraq; il primo ministro (ora dimissionario) è Adel Abdul Mahdi di confessione sciita, legato all’Iran; ed il neo eletto Mohammed al-Halboussi, sunnita, Presidente del Parlamento. Nonostante che tutta l’architettura statale sia stata coordinata e condivisa con gli Usa, venerdì si è celebrato l’ennesimo “schiaffo” al martoriato popolo iracheno post Saddam Hussein. Va ricordato che l’Iraq sotto il regime di Saddam era, in una visione relativistica, “democratico” e che la deposizione del rimpianto Rais avvenuta nel 2003, ma frutto di una destabilizzazione iniziata il 2 agosto 1990, ha esposto generazioni di iracheni ad una convivenza con il terrore e con la guerra. Ora i due principali alleati dell’Iraq che stanziano in quell’area sono diventati acerrimi nemici. Va anche menzionato che l’Iraq musulmano, dal punto di vista confessionale,  è diviso tra sunniti e sciiti con modesta prevalenza dei primi (con il potere sempre in mano sunnita), che l’area a prevalenza sciita è a sud di Bagdad ed ha come centro Bassora e che Saddam Hussein di confessione sunnita, ha per tutto il suo regime impedito una rilevante rappresentanza agli sciiti, anche perché in conflitto dal 1980 al 1988, con il confinante Iran sciita.

La scelta del presidente Usa, Donald Trump, di eliminare la massima rappresentanza dell’esercito e della credibilità iraniana Soleimani “a scopo di prevenire attacchi a danno di soldati e diplomatici Usa da parte di milizie sciite filo-iraniane”, come già avvenuto alcuni giorni prima contro l’ambasciata Usa a Bagdad, sembra più una ricerca di un casus belli che possa avere effetti multipli, sia diretti che indiretti, sia a livello di politica interna che estera. Al momento il “colpo grosso” di Trump, venduto nella “prima ora alla Storia” similmente all’eliminazione di Bin Laden ed al-Baghdadi, ha catalizzato l’attenzione statunitense sugli “effetti collaterali previsti” più che sul suo pseudo  “impeachment” ed ha compattato lo sciismo mediorientale. Il capo del governo iracheno dimissionario lo sciita Adel Abdel Mahadi, ha promesso vendetta insieme agli Hezbollah libanesi; con moderazione anche il presidente siriano sciita alawita Hassad, ha espresso critiche sull’accaduto, dichiarando, in una lettera al presidente iraniano Ali Khamenei: “di non dimenticare il sostegno che il Generale Soleimani ha dato alla lotta contro l’Isis in Siria”. Al di là della presa di posizione israeliana, congrua alla sua politica, Putin e Macron hanno concordato di operare in stretto contatto al fine di evitare un’escalation militare della situazione, in quanto come teorizzava un altro generale, Carl von Clausewitz, “la guerra è la legittima prosecuzione della via diplomatica”.

Mi resta una perplessità circa l’“operazione Soleimani”: vista la già grave situazione a Bagdad dove l’ambasciata Usa è stata costretta a chiudere a causa degli attacchi di gruppi sciiti, ha funzionato male il servizio d’informazione iraniano all’oscuro degli obiettivi Usa o i servizi segreti statunitensi sono stati così abili oltre che a nascondere il loro “piano”, anche a sapere che il generale Soleimani ed al-Mouhandis sarebbero atterrati all’aeroporto di Bagdad venerdì?

Non credo che gli Usa abbiano infranto il “diritto internazionale” (se a questo si può fare riferimento in un ambito così complesso e privo i regole) eliminando un generale iraniano, ma credo che abbiano voluto infrangere un’ulteriore barriera a favore di un sistema geopolitico con tendenze anarchiche che giova solo ad una concezione di “mercato globale ed al mantenimento di una camera di decompressione sociologica” che non ha nulla a che fare con la ricerca della Pace.

Intanto domenica 5 il capo del parlamento iracheno Mohammed al-Halboussi, ha comunicato una decisione che “obbliga il governo a preservare la sovranità del paese ritirando la sua richiesta di assistenza”; tale decisione è stata indirizzata alla comunità internazionale con l’invito a ritirare le truppe, a loro collegate, dal Paese.

Nelle stesse ore le Brigate Hezbollah, la fazione più radicale di Hashd, hanno invitato i soldati iracheni a spostarsi “almeno 1000 metri” dalle basi militari in cui sono presenti soldati americani, prevedendo che questi i siti potrebbero essere il bersaglio di attacchi; per risposta Trump incrementa, ufficialmente con tremila soldati, l’esercito Usa già presente in loco.


di Fabio Marco Fabbri