In Ruanda i rimpatriati dalla Libia sono stranieri nel loro Paese

lunedì 30 settembre 2019


Fonti Onu hanno riferito, mercoledì 25 e giovedì 26 settembre, in base ad un accordo tra l’Alta Commissione delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr), l’Unione africana (UA) e Kigali (Ruanda), che un primo gruppo di 75 rifugiati e richiedenti asilo, “clandestini”, bloccati in Libia, saranno accolti in Ruanda.

L’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati, il 15 settembre, aveva chiesto un coinvolgimento più ampio e più costruttivo a livello internazionale, puntando su una maggiore solidarietà globale, al fine di permettere una ricollocazione, quantomeno territoriale, dei circa cinquantamila migranti, bloccati nei centri di raccolta libici. Il responsabile della missione dell’Unhcr in Libia, Jean-Paul Cavalieri, ha dichiarato all’Afp (Agence France-Presse) a Tripoli, che si può far fronte a questa drammatica e complicata “dinamica migratoria”, solo con un maggiore coinvolgimento degli Sati Africani e con una “maggiore generosità” sovranazionale. L’accordo è stato sancito il 10 settembre ad Addis Abeba e prevede che il Ruanda accolga ed ospiti, in una prima fase, circa cinquecento clandestini, articolati in “pseudo rifugiati” ed in “pseudo richiedenti asilo”.

Nell’accordo risulta, in modo apparentemente singolare, che queste cinquecento persone debbano avere la provenienza dall’area geografica del Corno d’Africa. I centri di accoglienza saranno denominati e operanti come “centri di transito”, per poi programmare il trasferimento degli “ospiti” in altri Paesi africani nel frattempo sottoscrittori di “accordi”, o eventualmente, se lo vogliono, ritornare nel proprio paese; altri potrebbero anche essere “autorizzati a rimanere in Ruanda”, come dichiarato dal Governo ruandese. Il primo volo di evacuazione è giunto la notte tra giovedì e venerdì 27 settembre a Kigali, ha riferito una fonte ufficiale dell’Afp, aggiungendo che: “Questo primo volo, nell’ambito del meccanismo di transito di emergenza, recentemente istituito, dovrebbe avere avuto a bordo 75 persone”; è previsto un altro volo con 125 persone tra “il 10 e il 12 ottobre”. Il presidente ruandese Paul Kagame si è reso disponibile ad accoglierne, con modalità diversificate ed in funzione della “tipologia” di migrante, trentamila, circa i due terzi di quelli presumibili presenti sul territorio libico, purché tale trasferimento avvenga, come già detto, in numero non superiore a cinquecento per volta, diluiti in un lasso di tempo ragionevolmente lungo, onde evitare, come citano fonti governative: “che il paese venga sopraffatto”. Già da più di un anno Paul Kagame si era reso disponibile ad ospitare gli africani bloccati in Libia, soprattutto dopo che un rapporto della Cnn aveva evidenziato che tale dinamica migratoria determinava frequentemente fenomeni legati al “mercato degli schiavi e delle schiave”, “merce” appetibile sia in Africa che nel Vicino Oriente.

Al fine di disegnare una minima cornice storico-sociologica circa il Ruanda, ricordo che in questo Stato si è perpetrato il più veloce genocidio della storia, circa un milione di Tutsi, decimati da sanguinari e sovversivi massacratori di etnia Hutu in soli 100 giorni. Un trauma inferto alla comunità ruandese, che anche se passati venticinque anni, ha lasciato incurabili, profondi e traumatici stress psicologici alla popolazione sopravvissuta.

Molte associazioni, come la Subiruseke, stanno lavorando da anni con metodologie psicoterapeutiche su coloro che erano bambini e ragazze nel 1994. È verosimilmente questa terrificante esperienza che ha reso i ruandesi “generosi” nel voler accogliere i vari migranti, prevalentemente disorientati, ma potrà un piccolo e non “agiato” Stato centro africano, politicamente retto con energia dal presidente Kagame da un quarto di secolo al potere, “reggere” e trattenere un cosi alto numero di migranti con complesse caratteristiche comportamentali? Quest’anno sono stati commemorati i venticinque anni dal Genocidio, afferma Kagame, aggiungendo che le “tenebre sono state dissipate” ed “oggi la luce irradia questo posto”; sicuramente una “luce” ottimistica, ma anche affamata di legittimo e strategico desiderio di “attenzione” ed anche necessariamente “prezzolata”.

Tuttavia, il fenomeno dei “clandestini o dei fuggiaschi di ritorno” è già ben sperimentato in Africa; il caso della Nigeria può essere preso come “dato”, realizzatosi senza plateali accordi internazionali: “tuffatisi” nella rete dei “trafficanti di umani”, spinti dalla “speranza europea”, circa 15mila nigeriani sono stati rimpatriati; molti hanno passato anche più di un anno il Libia, dove hanno subito ogni tipo di violenza, specialmente le ragazze ed i minori (veri); non soffermandomi su questo aspetto, al loro rientro in patria, vengono spesso “stigmatizzati” e respinti.

A Benin City, grazie ad un peculiare e inusuale programma dello Stato di Edo, una regione del sud della Nigeria, i rimpatriati hanno potuto accedere a corsi di formazione per una loro eventuale collocazione lavorativa; il loro “profilo” disegna una popolazione con età compresa tra 17 e 35 anni, privi di un titolo di studio, inoltre un rapporto di Human Rights Watch, pubblicato il 27 agosto, denuncia il terribile stato psicofisico dei “rientrati sopravvissuti alla tratta degli schiavi” (queste caratteristiche sono comuni). Molti soffrono di “gravi disturbi psicologici”, “con problemi di salute ed emarginati dalla comunità di nuovo contatto”, condizioni peggiori rispetto al periodo antecedente la loro partenza.

I pochi centri o associazioni che esistono per prendersi cura di loro hanno pochissimo supporto finanziario e “non sono in grado di soddisfare le esigenze dei sopravvissuti a lungo termine”; a questi inintegrabili in un contesto più omogeneo di quello “occidentale”, l’assistenza continua è l’unica azione utile al loro “contenimento”. Tale situazione fa riflettere su quanto oggi si possa ipotizzare circa una collocazione “funzionale” al contesto sociale di “approdo” dei clandestini migranti in Stati europei con cultura, usanze e “modalità di convivenza”, lontane dalla loro; osservando che già alla “partenza” dalla loro patria erano non integrati, al ritorno la loro integrabilità è resa più complessa dalle drammatiche esperienze vissute.

Risulta abbastanza utopistico immaginarli inseriti in un contesto che senza welfare li lascerebbe oltre i “margini” della collettività autoctona, con tutti i rischi collegati. Ricordo una delle principali “teorie” dell’antropologia culturale che brevemente formula: “quando due comunità diverse entrano in contatto, quella meno sviluppata tende ad acquisire gli aspetti peggiori della comunità più sviluppata”.


di Fabio Marco Fabbri