lunedì 8 luglio 2019
Il trentesimo anniversario del massacro dei manifestanti pro-democrazia perpetrato il 4 giugno 1989 dal regime cinese, in piazza Tiananmen [a Pechino], è servito a mettere in luce l’aspra censura attuata in Cina sotto la guida del Partito comunista cinese (Pcc) e del presidente Xi Jinping.
L’anniversario di Tiananmen viene definito in modo eufemistico nella Cina continentale, come “l’incidente del 4 giugno”. Appare evidente che il regime teme che qualsiasi conversazione su quell’evento storico, per non parlare delle commemorazioni pubbliche, fomenti disordini anti-regime, che potrebbero mettere in pericolo il potere assoluto del Partito comunista cinese.
Nella Repubblica popolare cinese, Internet è controllato dal Pcc, in particolare attraverso la rigorosa censura praticata dall’Amministrazione per il Cyberspazio in Cina (Cac), il principale organo responsabile del controllo del Web, creata nel 2014. Nel maggio del 2017, secondo un report della Reuters, la Cac ha introdotto linee guida rigorose che richiedono che tutte le piattaforme Internet che producono o distribuiscono informazioni siano “gestite da staff editoriali autorizzati dal partito”. Queste piattaforme devono anche essere “approvate dagli uffici Internet e di informazione del governo nazionale o locale, mentre i loro dipendenti devono aver acquisito una formazione e ottenuto delle credenziali da parte del governo centrale”.
Freedom House, nel suo “Freedom on the Net 2018”, che va ad analizzare il grado di libertà su Internet nel 2018 in 65 paesi, ha messo la Cina all’ultimo posto. Reporters without Borders, nel suo indice mondiale sulla libertà di stampa del 2019, ha classificato la Cina al 177° posto su 180 Paesi, superata solo dall’Eritrea, dalla Corea del Nord e dal Turkmenistan. Il Comitato per la protezione dei giornalisti(Cpj), al momento del suo censimento carcerario del 2018, contava almeno 47 giornalisti dietro le sbarre in Cina, ma secondo il CPJ, il numero potrebbe essere molto più alto: “Le autorità stanno deliberatamente impedendo l’uscita delle notizie”. Nel marzo scorso, il Cpj ha indagato su almeno una dozzina di altri casi, tra cui gli arresti avvenuti nel dicembre 2018 di 45 collaboratori di Bitter Winter, una rivista che si occupa di diritti umani e libertà religiosa, che la Cina ha preso di mira come “sito web straniero ostile”.
In occasioni “sensibili” come l’anniversario di Tiananmen, interi siti web vengono bloccati. Da aprile, in vista dell’anniversario della strage di piazza Tiananmen, il sito di Wikipedia è stato oscurato in tutte le lingue e quello in cinese dal 2015 viene bloccato. È così anche per Google, Facebook, Twitter, Instagram e altri ancora.
E in queste occasioni “sensibili” vengono altresì bloccati i termini di ricerca. In passato, sono stati censurati anche vocaboli comuni e innocui come “oggi” o “domani”.
Nel caso dell’anniversario di Tiananmen, il Partito comunista cinese avrebbe avviato il giro di vite già nel gennaio scorso. Il 3 gennaio, l’Amministrazione per il Cyberspazio in Cina ha annunciato sul suo sito web di avere lanciato una nuova campagna contro “le informazioni negative e dannose” su Internet. Questa campagna di sei mesi includeva anche l’anniversario della strage di Tiananmen del 4 giugno. La nozione di “informazioni negative e dannose” è da considerarsi onnicomprensiva: ogni contenuto ritenuto “pornografico, volgare, violento, raccapricciante, falso, superstizioso, offensivo, minaccioso, provocatorio, sensazionale, così come le dicerie”, oppure correlato al “gioco d’azzardo” o a diffondere “stili di vita malsani e la cattiva cultura” deve essere rimosso da ogni piattaforma on-line. E la Cac ha aggiunto che “i comportamenti illegali non saranno tollerati e che i loro autori verranno severamente puniti”.
In Cina, la censura, oramai ampiamente automatizzata, ha raggiunto “livelli di accuratezza senza precedenti, aiutata dalla tecnologia di riconoscimento facciale e vocale”, secondo un recente articolo della Reuters che menziona quanto asserito dai censori cinesi:
“Talvolta diciamo che l’intelligenza artificiale è un bisturi e che un essere umano è un machete. (...) Quando ho iniziato questo genere di lavoro quattro anni fa, era possibile rimuovere le immagini di Tiananmen, ma ora l’intelligenza artificiale è molto accurata”.
La severa censura della Cina va di pari passo con la sua severa repressione della libertà religiosa. Il presidente del Religious Freedom Institute, Thomas F. Farr, in un’audizione del novembre 2018 davanti alla Commissione esecutiva del Congresso sulla Cina, ha definito la repressione della libertà religiosa come “il più sistematico e brutale tentativo di controllare le comunità religiose cinesi dopo la Rivoluzione culturale”. Come in altri regimi comunisti, a cominciare da quello dell’ex Unione Sovietica, l’ideologia comunista non tollera alcuna narrazione contrastante.
“Più dello Stato, la religione è fonte di autorità e oggetto di fedeltà”, ha scritto Farr. “Questa caratteristica della religione è sempre stata un anatema per i despoti totalitari della storia come Stalin, Hitler e Mao...”.
La brutale oppressione religiosa e culturale dei tibetani in Cina è in corso da quasi 70 anni, ma la Cina non ha solo cercato di distruggere la religione tibetana. Il Cristianesimo, ad esempio, è stato considerato fin dall’inizio come una minaccia per la Repubblica popolare cinese quando fu costituita nel 1949. “Ciò era particolarmente vero al culmine della Rivoluzione culturale (1966-1976), quando i luoghi di culto vennero demoliti, chiusi o espropriati oppure quando le pratiche religiose furono bandite”, secondo il Council on Foreign Relations. Alcuni chierici cristiani sono stati in carcere per quasi 30 anni. Negli ultimi anni, le vessazioni ai danni dei cristiani in Cina pare siano aumentate. Dalla fine degli anni Novanta, il regime cinese ha inoltre preso di mira il Falun Gong.
La Cina ha chiuso le chiese e rimosso le croci, che sono state rimpiazzate dalla bandiera nazionale, mentre le immagini di Gesù sono state sostituite da foto del presidente Xi Jinping. Ai bambini, i futuri portatori dell’ideologia comunista, è stato vietato di frequentare la chiesa. Nel settembre 2018, la Cina ha chiuso una delle più grandi chiese clandestine di Pechino. Nel dicembre 2018, il pastore della Chiesa Prima pioggia dell’Alleanza, Wang Yi, e sua moglie sono stati arrestati e accusati di “incitamento alla sovversione”, un crimine punibile con la reclusione fino a 15 anni. Insieme al pastore e alla moglie, sono stati arrestati più di un centinaio di fedeli. Nell’aprile scorso, le autorità cinesi hanno portato via con la forza un sacerdote della Chiesa clandestina, padre Peter Zhang Guangjun, subito dopo che aveva celebrato la messa della Domenica delle Palme. Egli sarebbe il terzo prete cattolico a essere prelevato dalle autorità in un mese.
Secondo un documento confidenziale pubblicato da Bitter Winter, la Cina si prepara anche ad avviare un giro di vite contro le chiese cristiane che hanno legami con comunità religiose straniere.
Il governo ha inoltre inviato gli uiguri – una popolazione di circa 11 milioni di persone, per lo più musulmana – dello Xinjiang, una provincia occidentale della Cina, nei campi di internamento per la “rieducazione politica”. Pechino ha dichiarato che i campi sono centri di formazione professionale volti a contrastare la minaccia dell’estremismo islamico. Gli uiguri hanno lanciato molti attacchi terroristici in Cina, secondo un rapporto pubblicato nel 2017 dall’International Centre for Counter-Terrorism dell’Aja. Questo rapporto intitolato “I combattenti stranieri uiguri: Una sfida jihadista sottovalutata” afferma: “Gli uiguri si considerano una popolazione distinta, per quanto concerne la loro etnia, cultura e religione, dalla maggioranza cinese Han che li governa. Queste distinzioni costituiscono la base dell’identità etno-nazionalista religiosa degli uiguri, che induce alcuni di loro a impegnarsi in attività violente finalizzate a stabilire il loro Stato, il Turkestan orientale (...) l’appello dell’ideologia islamica radicale al di fuori della Cina ha incoraggiato molti uiguri a partecipare al jihadismo violento come parte della loro identità religiosa e come un modo per promuovere la loro lotta contro le autorità cinesi”.
“I cinesi mobilitano le forze di sicurezza per gli imprigionamenti di massa dei musulmani cinesi nei campi di concentramento”, ha detto di recente Randall Schriver, vicesegretario alla Difesa per le questioni di sicurezza in Asia e nel Pacifico. “Secondo le informazioni frammentarie in nostro possesso, almeno un milione, ma forse anche tre milioni di cittadini su una popolazione di circa dieci milioni di persone” potrebbero essere imprigionati nei centri di detenzione.
Secondo The Epoch Times, nei campi di detenzione cinesi, gli uiguri vengono drogati, torturati, picchiati e uccisi con iniezioni letali. “Ricordo ancora le parole delle autorità cinesi quando ho chiesto quale fosse il mio crimine”, ha affermato Mihrigul Tursun, una donna che è fuggita negli Stati Uniti con i suoi due bambini. “Mi hanno risposto: ‘Essere uiguri è un crimine’“.
Ma il Partito comunista cinese non si limita alla persecuzione fisica delle minoranze religiose ed è sceso in campo contro il Cristianesimo nelle scuole di tutto il paese. Ad esempio, ha costretto gli studenti a giurare di opporre resistenza al credo religioso. Anche gli insegnanti vengono indottrinati ad “assicurare che l’educazione e l’insegnamento siano conformi alla giusta linea politica”. I classici della letteratura insegnati nelle scuole sono stati censurati: in Robinson Crusoe di Daniel Defoe, i riferimenti alla Bibbia sono stati eliminati e anche i riferimenti alla messa domenicale o a Dio contenuti nei racconti di Anton Chechov e Hans Christian Andersen sono stati rimossi.
Inoltre, non è consentito in classe l’uso di parole “sensibili” correlate alla religione, come ad esempio “preghiera”. Tanto nella repressione contro la libertà religiosa quanto nella censura della libertà di espressione, il Partito comunista cinese utilizza mezzi high-tech per raggiungere i suoi obiettivi. Stando a quanto riportato da alcuni articoli di stampa, lo Xinjiang viene usato come banco di prova per la tecnologia di sorveglianza. Secondo The Guardian, gli uiguri dello Xinjiang vengono “attentamente monitorati, con telecamere di sorveglianza installate sui villaggi, agli angoli delle strade, nelle moschee e nelle scuole. I pendolari devono passare attraverso i controlli di sicurezza in tutte le città e i villaggi, e sottoporsi alla scansione del volto e al controllo dei telefoni”. La Cina impiega la tecnologia di riconoscimento facciale che associa i volti delle persone riprese dalle telecamere di sorveglianza a un database di individui sospetti.
Nel 2018, la Cina aveva circa 200 milioni di telecamere di sorveglianza, e prevede di installarne 626 milioni entro il 2020. L’obiettivo è la realizzazione di una “Piattaforma integrata per le operazioni congiunte”, che integrerà e coordinerà i dati forniti dalle telecamere di sorveglianza dotate di riconoscimento facciale, i numeri delle carte d’identità dei cittadini, i dati biometrici, i numeri di targa e le informazioni sulla proprietà del veicolo, sulla salute, sulla pianificazione familiare, nonché le informazioni bancarie e relative ai casellari giudiziali, ogni traccia di “attività insolite” e qualsiasi altro dato pertinente che possa essere raccolto sui cittadini, come le pratiche religiose, i viaggi all’estero e così via, stando ai rapporti dei funzionari locali e della polizia.
Attualmente, la Cina è in procinto di realizzare il sogno di Stalin, Hitler e Mao: uno Stato totalitario perfetto, con l’aiuto della tecnologia digitale, in cui l’individuo non è in grado di sfuggire all’occhio onnisciente dello Stato comunista.
Traduzione a cura di Angelita La Spada
di Judith Bergman (*)