Khashoggi e il Washington Post: l’inganno dell’anno

venerdì 28 dicembre 2018


Che Jamal Khashoggi agisse per conto del Qatar per promuovere la Primavera dei Fratelli Musulmani in Medio Oriente era un dato di fatto ben evidente già prima della sua scomparsa a Istanbul quel dì d’inizio ottobre. Bastava leggerne gli articoli pubblicati dal Washington Post per capirlo. Uno su tutti, intitolato “Gli Stati Uniti si sbagliano sulla Fratellanza Musulmana”, datato 28 agosto, era chiaramente frutto della penna di un qualche ghost writer islamista per rilanciare il progetto di conquista della regione da parte della Fratellanza e dei suoi sponsor - notoriamente il Qatar, insieme alla Turchia di Erdogan -, sotto le mentite spoglie di rivoluzioni scatenate in nome di democrazia e libertà. Smaccatamente propagandistica ed eterodiretta è anche la menzione d’onore riservata ad Al Jazeera quale oasi di libero giornalismo in Medio Oriente nell’ultimo editoriale pubblicato postumo il 17 ottobre, dove Khashoggi si doleva per la mancanza di libertà di espressione nei paesi del mondo arabo.

Pertanto, le recenti rivelazioni che gettano luce sul rapporto organico tra Khashoggi e la Qatar Foundation International, basata a Washington, non sono certo una sorpresa. Non sorprende che la direttrice della fondazione, l’ex diplomatica americana, Maggie Mitchell Salem, indicasse a Khashoggi i messaggi che andavano lanciati dalla tribuna mondiale del Washington Post e che per facilitargli il compito gli avesse affiancato un assistente abile nella scrittura in lingua inglese.

Quel che sorprende è che simili rivelazioni sia a farle lo stesso Washington Post in un’articolessa pre-natalizia, dove ripercorre il contenuto di alcuni messaggi telefonici scambiati tra la “persona dell’anno”, secondo il Time Magazine, e Salem. L’articolessa presenta una sorta di cronistoria dei mesi vissuti in esilio da Khashoggi, inseguito “dalla lunga ombra dell’Arabia Saudita”. Il racconto cerca di esaltare il più possibile la figura mediatica di Khashoggi quale martire della libertà, amante del proprio paese ma perseguitato dai suoi governanti. D’altro canto, non può evitare che tale immagine, creata ad arte per l’uso e il consumo dell’opinione pubblica internazionale, venga inficiata dai paragrafi dedicati alla liaison tra Khashoggi e la Qatar Foundation International.

Il contenuto dei messaggi telefonici, che sarebbero riportati in un dossier di 200 pagine, è descritto quasi en passant, al fine di non distorcere la linea narrativa. In egual maniera, le relazioni di Khashoggi con i Fratelli Musulmani e il suo principale braccio operativo negli Stati Uniti, il Council on American-Islamic Relations (Cair), nonché i legami con alti esponenti del governo turco, vengono notificati freddamente come se non fossero dirimenti per qualificare l’intera vicenda.

Dall’articolessa si apprende che Khashoggi si era rivolto al Cair in cerca di supporto nella raccolta di fondi per la creazione di un think tank denominato “Democracy for the Arab World Now” (Democrazia per il Mondo Arabo Adesso). Per controbilanciare la notizia, che conferma il giornalista saudita nelle vesti di araldo della causa islamista promossa dal Qatar, dalla Turchia e dalla Fratellanza Musulmana, il Washington Post menziona il precedente tentativo di dar vita al “Saudi Research Council”. Tuttavia, il quotidiano simbolo dell’anti-trumpismo di professione avrebbe appreso di questo presunto tentativo da non meglio specificati “documenti […] che sembravano parte di una possibile proposta da sottoporre al ministero dell’informazione saudita”: una fonte alquanto vaga, al pari delle testimonianze dei presunti amici e delle persone “a conoscenza delle loro discussioni” più volte citate nel testo, che non conferiscono plausibilità alla narrativa propagandata dal Washington Post.

Il giornale, inoltre, si dichiara inconsapevole dell’esistenza delle relazioni pericolose tra Khashoggi e il Qatar. I redattori della sezione “opinioni” non ne sapevano nulla, ma il capo redattore Fred Hiatt, per difendere il proprio operato, leva gli scudi a favore della professionalità di Khashoggi: “La prova dell’indipendenza di Jamal sta nel suo giornalismo”, afferma, “come tutti coloro che leggono i suoi lavori possono vedere”. Per chi questi lavori li ha letti è fin troppo facile smentirlo, mentre se il Washington Post poteva davvero non sapere avrebbe dovuto denunciare l’operato di Khashoggi e non continuare a difenderlo.

Il Washington Post fornisce invece la prova della sua connivenza con il Qatar e i Fratelli Musulmani. Nell’articolessa, nessuna critica viene infatti mossa al regime di Doha, ad esempio per l’annosa questione dei finanziamenti al terrorismo e per le sistematiche violazioni dei diritti umani, sia nei confronti dei lavoratori stranieri impiegati nella costruzione degli stadi di calcio che dovranno ospitare i Mondiali 2022, che dell’opposizione interna agli emiri del clan Al Thani. Mentre i Fratelli Musulmani vengono definiti semplicemente “un’organizzazione messa fuori legge da regimi autocratici in Medio Oriente”. Evidentemente, il Washington Post ha potuto dissociarsi soltanto dalle relazioni pericolose tra Khashoggi e il Qatar e non da quelle molto probabili intrattenute con quest’ultimo, che spiegano la grande ospitalità offerta al giornalista saudita in esilio negli Stati Uniti.

Cosa ha spinto il Washington Post a svelare l’inganno dell’anno? Ha forse pensato di mettere le mani avanti per non cadere indietro travolto dallo scandalo, se il dietro le quinte degli ultimi mesi di Khashoggi fosse stato scoperto da un altro giornale? In ogni caso, se è vero “democracy dies in darkness” (la democrazia muore nell’oscurità), il Washington Post è rimasto vittima della sua stessa mal mirata profezia.


di Souad Sbai