I libici irrompono sulla Nivin, “violenze sui migranti”

mercoledì 21 novembre 2018


Gas lacrimogeni, pallottole di gomma e l’accusa di pirateria: si è conclusa così la “resistenza” dei quasi 80 migranti a bordo della Nivin, che per 12 giorni si sono barricati sulla nave attraccata a Misurata rifiutandosi di sbarcare in Libia. Ora sono tornati “all’inferno”.

Ieri militari libici armati hanno fatto irruzione usando la forza: il bilancio è stato di una decina di feriti, diversi intossicati dai gas, altri colpiti dai proiettili di caucciù. Secondo alcuni media locali, che citano fonti della sicurezza, ieri la Procura generale ha dato mandato per l’irruzione, dopo “il fallimento dei negoziati” per farli scendere. Sulla Nivin c’erano “94 migranti da Somalia, Eritrea, Sudan, Bangladesh e Pakistan”: 18 di loro, giorni fa, “hanno deciso di consegnarsi alla Guardia costiera”, gli altri hanno ingaggiato in queste settimane un braccio di ferro con le autorità. Ora per i 79 si profila il carcere: sono stati accusati di pirateria, ha riferito il direttore della sicurezza nel porto libico di Misurata ai media internazionali. Il responsabile ha confermato che nell’irruzione “sono stati sparati proiettili di gomma e lacrimogeni”, e che “i feriti sono stati ricoverati” nell’ospedale di Misurata. Gli altri sono nel centro di detenzione di Kararim. La Libia “è l’inferno”, si erano lamentati in questi giorni i migranti. Meglio “morire qui”, a bordo, che tornare in una cella libica, era il coro unanime. Kai, un 18enne del Sud Sudan, aveva raccontato ad al Jazeera la storia di questi disperati. Prima di essere avvistati in mare dalla Nivin, un mercantile battente bandiera panamense, e soccorsi l’8 novembre scorso, il barcone su cui tentavano di arrivare alla “Terra promessa”, l’Europa, aveva viaggiato per “oltre 200 km”.

“Quelli della Nivin ci hanno detto che ci avrebbero portato in Italia, non a Misurata”, hanno raccontato i sopravvissuti. “Abbiamo avvistato Malta, poi ci hanno riportato indietro”. Kai è arrivato in Libia nel 2013: il fratello è stato ucciso a Bani Walid, la “città fantasma” dove si ritiene che la vita di ogni migrante costi almeno 1.000 dollari, spesso richiesti come riscatto ai parenti. Il giovane, come tanti della Nivin, da allora è passato da un centro di detenzione all’altro, fuggendo a più riprese sotto i colpi di arma da fuoco delle guardie, e ricatturato altrettante. Lo scorso settembre l’Onu è tornata in campo per denunciare la situazione “tragica” nei 20 centri di detenzione libici di cui si ha notizia, gestiti dalla galassia delle milizie libiche. I centri ricordano i “lager”, all’interno dei quali si sarebbero consumati “stupri, rapimenti e torture”.

Nel Paese sono bloccati oltre 600mila migranti, secondo i dati disponibili, diverse migliaia dei quali trattenuti nei centri di detenzione.


di Redazione